minidiario scritto un po’ così di un paio di giorni in giro, uno: linee tirate dritte, dài Reagan, inni nazionali, ariosti per l’arrosto, induriti dalla fabbrica

Mi chiamano per una formazione. D’accordo, anzi urrà. A Reggio, non quella, questa, come dicono fiscali: Reggio nell’Emilia. In. Ancor prima di arrivare so per certo alcune cose, pur non essendoci mai stato: la via Emilia a far da bisettrice alla città, tirata dritta col filo come piaceva ai certi chiamati Romanes, e non ripeterò certi paragoni, sensati peraltro, con le vione americane coi numeri (e fuori c’era il uèst); i portici e il palazzo ducale, di quel ducatino di Modena e Reggio degli Este, ripiego modesto da Ferrara, ormai perduta al papato; il cibo, la buona vita e certe calatravate imbarazzanti tra stazione di interscambio, treni mediopadani, e ponte autostradale, auto.

Vien sempre seconda, Reggio, stritolata tra i grossi calibri. Il ducato di Modena e Reggio, quella cosa che ancor si irritano del parmigiano reggiano, e che a sentir loro dovrebbe essere il reggiano e basta, tutt’al più, va’, il reggiano parmavaacagare. Se, poi, si vuol mangiare da porcelli i porcelli si va a Parma e Modena, con in più l’aceto, per la musica ancora Parma, Bologna non ne parliamo nemmeno, fuori scala, pure Piacenza per turisti è più frequentata, qui si fan fatica a trovare le calamite, pure. A volte un po’ di notorietà riflessa, basta una targona per ricordare il compositore polacco che nelle sale vicino al comune compose l’inno nazionale polacco, proprio qui. Se poi si dice che l’inno nazionale italiano, nelle strofe che nessuno sa, è l’unico inno al mondo a citare la Polonia, allora il cerchio si chiude. I rapporti coi vicini cordiali, come sempre, ancora ci si ricorda dello striscione allo stadio: “Reagan bombardaci Parma”, con il complemento maramaldo.

Vengono in mente altre cose, almeno a me, le Officine meccaniche reggiane, immense e oggi spazio degradato senza scopo, i morti di Reggio Emilia, quelli fucilati nelle officine per mano fascista e quelli del 1960 per ordine di Tambroni. Fascista, ancora. C’è la canzone di Amodei, per me la più bella delle canzoni di protesta, Compagni sia ben chiaro / che questo sangue amaro / versato a Reggio Emilia / è sangue di noi tutti e oggi in quella che era piazza Cavour c’è un memoriale per i cinque operai nel luogo in cui furono ammazzati dalla polizia. Furono sparati 182 colpi di mitra, 14 di moschetto, santoddio, e 39 di pistola sulla manifestazione antifascista, forse a guardare attentamente qualche traccia si scorge ancora. Ci mancava Bixio coi cannoni. Sto seduto un po’ a guardare la piazza e provo a immaginare. Perché Reggio era la città degli operai, della consapevolezza politica più radicata, prima della guerra si producevano armi, tante, aerei e carri, poi locomotive, gru enormi da porto, quelle da migliaia di tonnellate. Operai di fabbriche pesanti. A Reggio le lotte più dure, la medaglia d’oro della Resistenza, la più lunga occupazione di fabbrica mai vista, gli scontri e i morti, le brigate rosse di Franceschini nacquero a Reggio, non a caso, i CCCP pure, il senso dell’eredità partigiana tradita, niente o poche mollezze. Sempre non a caso, a Cavriago, pochi chilometri, grande centro della Resistenza, c’è la piazza col busto di Lenin, donato dall’URSS a ringraziamento. Ci andammo apposta con i compagni di merende a zonzo all’università. Finché c’è, il busto, poi lo sostituiranno con quello di Orietta Berti, quando sarà. E i fratelli Cervi poco più su, a Campegine, fucilati al poligono di tiro a Reggio. Quindi no, prima nella lotta.

Aggiungo alla camminata cittadina un pezzo di percorso e vado a vedere la casa di Ariosto, il Mauriziano. «Già mi fur dolci inviti a empir le carte li luoghi ameni di che il nostro Reggio, il natio nido mio, n’ha la sua parte», e tanto ameno è ancora, almeno per un paio di metri attorno alla casa, bellissima e chiusa senza speranza, i cartelloni che preannunciano sontuoso restauro stanno invecchiando essi stessi. Meno ameno, forse, il centro commerciale Ariosto, che mi preannuncia l’arrivo. Però c’è il brico, di cavalieri e d’arme nessuna traccia. Già, perché Ariosto è nato qui, e Boiardo a un tiro di schioppo, c’è la rocca a Scandiano e presumibilmente un palazzotto qui in città, va a finire che delle tre corone estensi nessuna era di Ferrara, nemmeno per caso. Allungo ancora e vado attorno al poligono di tiro, non so con quale obbiettivo, visto che non mi faranno certo entrare. Non importa, è un omaggio, una specie, un piccolo pellegrinaggio dedicato alla memoria dei fratelli Cervi, al loro coraggio, alla loro spaghettata antifascista. Fa caldo anche se è quasi il tramonto, riconosco l’entrata, è rimasta uguale ad allora, quelle poche foto rimaste. Fortuna che son partito presto e che la formazione l’ho fatta durare poco.

Un’ultima cosa, prima di andare: un tributo dovuto all’onomastica locale. I nomi nel reggiano hanno tutta una vita propria, così concentrata che nessun altra provincia emiliana ne condivide la consistenza, e così variegata da costituire un universo staccato e divergente. Gli Offlaga disco pax, gran gruppo sempre tra i miei, ne fecero persino una canzone, facendo elenco musicale di nomi presi dalla guida del telefono, recitati alla maniera di Collini. Eccoli, dunque: Aderito, Athos, Babel, Boiler, Demos, Etno, Eles, Enver, Engels, Engel, Enos, Ero, Eves, Eides, Firmato, Frea, Glennis, Ibanez, Iaures, Idea, Idillio, Idolo, Iller, Illo, Iuna, Iames, Iones, Katiuscia, Lena, Liuska, Lidoska, Lista, Mauder, Malfa, Miroslav, Neda, Nemma, Nullo, Nuova, Nives, Olmes, Oriente, Orio, Seno, River, Tita, Tundra, Uber, Urano, Wilmo, Wolner, Wilmer, Wagner, Wainer, Yunissei, Yenissei. In bell’ordine, su tutti Idillio e Tundra. Perché un nome è tutto quel che davi.


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