Per passare di palazzo ducale in palazzo ducale, scavallo da Reggio a Modena e vado a Sassuolo. L’aumento vertiginoso di rotonde e di camion mi dice che sono finito in un distretto industriale esteso, che va da quelle che i tromboni chiamano le eccellenze italiane nel mondo per vendere agli sceicchi, Maranello, la Ferrari, la pista di Fiorano, al distretto della piastrella, che da qui si irradia nelle cucine e nei bagni di tutta la galassia. Anche a casa mia, e vostra, vengono da qui, sicuro. Ma piastrella di ceramica, prodotto fino, mica quelle piastrellacce che fanno altrove. Fin dalla metà del Settecento qui ci si lavora, fino a sviluppare l’impasto migliore che si sia mai visto, duraturo, compatto, puro. Marca Corona esiste ancora, dal 1741 e i duchi avevano una collezioncina di porcellane niente male. E oggi ho imparato che ceramica e porcellana si distinguono per impasto e cottura, per poi fare cose diverse. Ma son parenti strette. Per strada scrivono I love tiles, col cuoricino.
Siccome poi bisogna pur attaccarle, ‘ste piastrelle, è anche il distretto della colla e del cemento specifico, ossia Mapei e Kerakoll, colossi del settore. La Kerakoll, che si deve essere sottoposta a un green washing mica da poco, è uno smambrone tutto bianco con enormi piantine disegnate e scritte bio alte sei piani. Davanti, ha una specie di teiera tecnologica enorme che viene spacciata come il laboratorio eco-bio che sforna ogni giorno prodotti sempre più compatibili. Va da sé che di soldi ne girano, tanti, Sassuolo è ricca e la squadra in serie A lo dimostra, oltre a essere una potenza nel ciclismo. Al momento, l’interruzione dei rifornimenti di argilla dall’Ucraina crea dei problemi, mi dicono che è tutto un po’ più fermo. Le navi di argilla, cioè che la portano non che son fatte di, non partono più dal porto di Mariupol. E adesso man mano salta fuori che le connessioni industriali con l’Ucraina sono molteplici, numerose e insospettate. Forse sarebbe valsa la pena provare a proteggere un po’ di più le nostre fonti di approvvigionamento, prima. O no? Intanto l’argilla viene dalla Turchia, mi dice uno attento a queste cose, buoni quelli…
Le colline attorno sono formidabili, verdi e dolci, si intravede un po’ di neve in fondo, a sud, dove salgono. Le acque termali sono note da sempre, la piana in cui sta Sassuolo chiama l’insediamento, il Secchia la attraversa placido. Tassoni, sì, ma era un’altra secchia. A scegliersi l’angolo giusto, oscurando i capannoni, la vista è strepitosa. Se si guarda tutto per bene, invece, pare Minsk, per stare nel settore, o certi distretti del mobile o dell’acciaio lombardo-veneto, i furgoni bianchi corrono liberi anche qui con afflato del tutto lombardo. Posso ben capire, comunque, andando indietro sei secoli, come gli Este, accaldati dall’estate modenese e bisognosi di un parco di caccia come si deve, abbiano riattato un castellotto a palazzo ducale estivo, con tanto di peschiera colossale per spettacoli acquatici. Le connessioni dei duchi d’Este con le arti furono sempre molteplici, a onor loro, per cui ci sono alcuni zampini indiretti di artisti valorosi, Bernini e Velazquez per volare alti. Poi il tutto passò ai Pio di Carpi, poi di nuovo agli Este per esser poi spazzati via dall’onda napoleonica, non sarò mai grato abbastanza. Già ci son rimasti quattro Savoia sul gobbo e son più che abbastanza.
Vado a Formigine, c’è un castellotto difensivo, grosso, rara zona priva di capannoni per piastrelle per vecchie ragioni fiscali. Davanti al castello contemplo con un coadiuvante, ho di fianco uno che sembra mezzo Gino Paoli, nel senso che è bassetto e un po’ più giovane. Sì chiama Ariano. Sì, Ariano. Ma mica c’entra con quella questione idiota della razza presunta, macché, qui è la variante di Ario, più veneto, per il discorso sull’onomastica di ieri. Che se poi anche fosse, stamo messi malino ad ariani, guardandolo. Poi si addormenta, reclina la testa di quasi cento gradi, russa e bon, proprio niente razza. Buona Pasqua, Ariano, se la lingua non ti si incastra nel naso da dentro.
Devio per Correggio, la vorrei rivedere. Negli anni Novanta la festa dell’Unità che lì si faceva – e il paese con rispetto parlando, è uno sputazzo – era un vero punto di riferimento musicale di tutto il nord Italia. Dico: Dylan, sì proprio quello, Neil Young, Lou Reed, Patti Smith, un sacco di altri. Noi ci venimmo per Sinéad O’Connor, allora al suo massimo, bellissima e selvaggia, 5 luglio 1997. Arrivammo ore prima e Correggio si vede in venti minuti, passammo di panchina in bar in panchina all’infinito e in una calda serata estiva padana vedemmo un concerto meraviglioso. Finito, lei uscì con la chitarra, evidentemente aveva ancora voglia e noi pure, si sedette sul bordo del palco e ne fece un altro, di concerto. Per una trentina di fortunati che restarono lì, compresi noi. Facemmo anche due chiacchiere, dopo la seconda fine. Memorabile. Correggio è un posto strano, ha una concentrazione di artisti inspiegabile, viste le dimensioni. Posti analoghi non ne hanno per nulla, sarà l’acqua, l’aria, la combinazione di queste con il maiale e il lambrusco. Cito Pier Vittorio Tondelli, l’Allegri detto il Correggio pittore valentissimo, Luciano Ligabue, Niccolò da Correggio, condottiero e letterato, Dorando Pietri e quell’arrivo disgraziato alla maratona. Per dire. Certo, anche la Cianciulli, la saponificatrice. I bei portici, il palazzo dei principi da Correggio, una certa quiete, un cimitero ebraico fiorito, insomma il posto è gradevole e di riflesso anche le persone mi pare lo siano più che altrove. Il cartolaio mi dice benvenuto appena entrato e sorride, mai successo dalle mie parti, sono ancora scosso.