Tra l’altro, a Sansepolcro qualche anno fa infuriava il dibattito sulle origini della città, con il dottor Benini che ipotizzava l’accampamento romano e il dottor Ribalta (nomen) che ne contestava le premesse, con pubbliche interminabili discussioni tra i maggiorenti. Ma c’era un vizio di sostanza, nel senso che i due erano cognati, si sospetta che parte dell’acrimonia fosse per quella ragione. Chissà le cene di natale.
Comunque, riprendo. Scendo dal tempietto di Valadier, proseguo per la gola di Frasassi e vado a Fabriano. Esattamente, quella di tutti i nostri album da disegno. In realtà, a dirla bene, la cartiera che fa gli album che conosciamo tutti si chiama Milani ma è ormai per antonomasia ‘Fabriano’, perché nel tempo si è comprata tutte le altre cartiere della zona, centinaia. Poi, che al mercato mio padre comprò, a sua volta è stata comprata dalla Fedrigoni di Verona, stesso settore, e poi tutto il gruppo dal fondone Bain Capital di Boston, e ciao carta italiana prestigio nel mondo.
Se lo stesso gruppo industriale della carta si è ridotto di parecchio, 550 operai oggi contro le migliaia di un tempo, il vero lavoro novecentesco a Fabriano veniva dal gruppo Merloni, un colosso degli elettrodomestici e primo produttore italiano, per citare un po’ di marchi Indesit, Scholtès, Philco Italia, Ariston Thermo Group, più interessi diversificati come la Benelli di Pesaro, motociclette, e via così. Parlo al passato perché nel 1975 il marchio ha cessato di esistere, i marchi scorporati in attività autonome quando non scomparsi, per poi entrare in crisi in anni recenti. Tanta era la ricchezza di questo piccolo borgo quanto lo è la crisi attuale, che si manifesta con la disoccupazione al venti per cento e poche opportunità in valle, se non il turismo più su. Ma il turismo degli stabilimenti abbandonati è ancora troppo di nicchia per contarci fino in fondo.
Venire qui, a Fabriano, e non imparare nulla sulla carta e sulla sua storia sarebbe proprio da stolti, allora mi ci metto e due cose le memorizzo. Tocca abbozzare ma anche questa cosa, la carta, l’hanno inventata i cinesi, e ben prima di Cristo, le ultime ipotesi parlano del secondo secolo prima. Mantennero il segreto a lungo, incredibilmente, perché mille anni dopo erano ancora gli unici a produrla, tutti gli altri a papiro e pergamena. Si ipotizza, poi, che la formula segreta sia passata a noi per via degli arabi, attorno al 750, ma gli studiosi non sono ancora concordi su come ciò sia avvenuto. Io non so niente, per carità, ma un paio di giorni fa sull’appennino tosco-emiliano sono passato da un paese che ha un nome significativo, Mercato Saraceno, secondo me qualche indizio qua e là c’è. Comunque, appreso il segreto, ovviamente poi il genio italico – ah, le narrazioni locali – ha perfezionato il prodotto, migliorato, inventata la filigrana, usato i magli verticali che sfibravano canapa e lino più velocemente e meglio e siamo diventati campioni del mondo nella carta. Va bene. Anche se ricordo in Cina certe carte che erano proprio difficili da battere. Ecco, ultima cosa: fino a metà dell’Ottocento, quando il monopolio della carta europea era in mano agli inglesi, la carta si faceva con gli stracci. Il passaggio alla polpa di legno si deve a loro.
Diluvia, ma come accade spesso d’agosto basta sedersi al riparo e aspettare. Con tutte le richieste d’acqua finora, sarebbe poi vergognoso lamentarsene. Quando spiove, saluto Fabriano e vado a Gubbio, pochi chilometri a est ma, di nuovo, passaggio di regione. La piana nella quale sorge è davvero strepitosa, coronata da colline e qualche monte un poco più alto, il monte Ingino, attraversata da due torrenti, Camignano e Cavarello che, essendo torrenti al momento non esistono, e cielo limpido. Una meraviglia.
A dire Gubbio di solito viene in mente il santo Francesco e il lupo, ovvero il fatto miracoloso: «Vieni qui, frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona» e quello buono. Io sono qui non per quello, non sto facendo il cammino di Assisi, bensì per i Montefeltro, ancora. Federico di Montefeltro, associato perlopiù e giustamente a Urbino, ne scrivevo anch’io qualche mese fa, in realtà nacque qui, a Gubbio, figlio di Guidantonio conte e di madre ignota. Ahi. Si ritrovò così ad avere davanti un altro erede, tale Oddantonio e, di conseguenza, a essere mandato via da Urbino e ad essere addirittura scambiato come ostaggio dai veneziani. Dopo un po’ di vagolamenti fruttuosi, condottiero persino a Milano, ecco arrivare l’opportuna congiura che elimina Oddantonio, chi l’avrebbe detto?, ed ecco spalancarsi le porte del potere, Urbino e il Montefeltro. Fe.Dux. Talmente bravo, Federico, da non risultare mai coinvolto nella congiura, quando è evidente che era quello che ne aveva più da guadagnare. Gubbio, insieme a Urbania, divenne un luogo di soggiorno e di esercizio del potere, oltre naturalmente a Urbino, per cui venne dotata di opportuno palazzo ducale, con gli stessi crismi del principale. Ovvero, cortile rinascimentale, architravi delle porte marchiati, studiolo meraviglioso tutto in legno intarsiato, gemello di quello urbinate. Il principio che sottintendeva tutto quanto, lo studio e la pratica delle arti nell’esercizio di governo, è ben riassunto nei versi dell’Eneide nello studiolo: «Fisso a ciascuno il suo giorno, breve e irrevocabile il tempo / Della vita per tutti: gloria allargar con le azioni, / questo ottiene virtù».
A fine Ottocento, sto correndo ma le cose da dire sarebbero moltissime, il palazzo fu acquistato dai ricchi Nonmiricordochi, e spogliato di ogni cosa vendibile. Compreso, horribile dictu, lo studiolo, smontato, venduto a Nemmenoquestomiricordo che lo fece rimontare nella propria villa di Frascati per poi, sciagurato anche lui, rivenderlo al Metropolitan Museum di New York. Beh, almeno è visibile e non privato, infatti io l’ho visto là. Alcuni anni fa, finalmente, il comune di Gubbio ha ingaggiato due ebanisti falegnami bravi e ne ha fatto fare una copia che sta dove dovrebbe l’originale. Visitare il palazzo e vedere il vuoto con lo spiegone “Qui una volta c’era…” sarebbe stato parecchio frustrante.
A ogni modo, a voler vedere un lato positivo nella cosa, è stato grazie anche a episodi del genere che il nostro paese si è dotato, prima di tutti, di una legislazione appropriata che impedisce l’esportazione e la vendita di beni culturali senza l’approvazione dello Stato. Ma a volerlo, proprio, comunque bene anche la copia.
Il malfunzionamento, mi tocca dirlo: orario di apertura ufficiale del palazzo ducale, otto e trenta, sta scritto sugli enormi gonfaloni a fianco dell’entrata e, soprattutto, sul sito; a fianco della porta di entrata, come spesso accade, un A4 stampato e infilato in un ercole, cioè la busta di plastica, che dice le dieci. E sono le dieci, effettivamente, nonostante alle otto e mezza siamo in dieci davanti all’ingresso con aria interrogativa. Si fa, così? No. Almeno cambiarli sul sito, gli orari, vivaddio, che è la fonte primaria dei turisti. Eddai, che costa? Li avranno cambiati su facebook, gli scellerati.
Certo, poi il trucco del viaggiatore sta nel far diventare l’inghippo occasione più propizia, quando è possibile, e stavolta è possibile: poco più in basso c’è una terrazzona-giardino pensile con caffetteria a baracchino che pare mandata dal signore, cappuccione e attesa con vista panoramica da cartolina.
Ed è qui che, beandomi dell’occasione, concludo per oggi, avendone dette abbastanza.