minidiario scritto un po’ così di un breve giro cadorino: due, «le parole incredulità, orrore, pietà, costernazione, rabbia, pianto, lutto, gli restano dentro col loro peso crudele»

Piove che il signore la manda a sbroffi violenti ed è il tempo appropriato per quel che voglio fare oggi. Un giro rapido al decathlon di Ponte nelle Alpi per comprare cose impermeabili, ogni volta stolto che sono, una decina di minuti a spasso su una strada romana che ho visto indicata per caso e proseguo in su verso la mia destinazione.
Longarone. Volutamente scritto così, da solo, echeggiante, come una valanga d’acqua che di notte spazza via vite e paesi. Disse Buzzati, che era di qui vicino: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi». E Tina Merlin, fastidiosa con quel suo petulare del pericolo, che trovò un editore solo vent’anni dopo la tragedia. Saranno sessant’anni questo ottobre e io son qui apposta per quello, voglio anche esser pronto per una prossima serata a Milano in cui Marco Paolini rifarà la sua memorabile orazione civile. Longarone, dicevo. Longarone è un disastro, mi si perdoni, spazzata via dalla furia è poi stata ovviamente ricostruita ma senza criterio né affetto, con soldi, tanti, e nessuna pietà. Quelli che non erano morti da qualche parte dovevano pur vivere, si capisce, il paese è però stato rifatto su alla bruttodio, brutalista in cemento armato, con certi complessi che ricordano il Corviale, condominii che nemmeno le peggiori speculazioni. Senza affetto né pietà, persino i luoghi che per natura dovrebbero essere accoglienti sono spenti, spogli e morti, fatti perché si deve. Magari con architetto di grido, giù della pianura. E chi aveva perso famiglie, amici, affetti, perse due volte il paese, una per l’acqua e una per gli uomini di fuori.

Il cimitero monumentale è una sequenza di file regolari di piccoli monumentini tutti uguali progettati da qualche architetto assente pochi anni fa, che badò all’ordine e allo stile e poco o nulla alla memoria, al rispetto e alla pietà, ancora. Povero Longarone, lo scempio prosegue. Mezzo chilometro più in su ci sono due paesi che, fortunati, erano appunto più in su e l’acqua, si sa, va poco in salita per quanto veloce e tanta sia. Quei due paesi sono come devono essere, questo invece è un mostro, chissà se ne valeva davvero la pena stare qui a queste condizioni.
Diluvia, salgo alla diga. La gola è stretta e scura, anche quando c’è il sole, l’impressione è sempre quella. Buzzati lo scrive bene, per forza: «più che una valle è un profondo e sconnesso taglio nelle rupi, un selvaggio burrone, mi ricordo la straordinaria impressione che mi fece quando lo vidi per la prima volta da bambino, a un certo punto la strada attraversava l’abisso, da una parte e dall’altra spaventose pareti a picco. Qualcuno mi disse che era il più alto ponte d’Italia, con un vuoto sotto, di oltre cento metri. Ci fermammo e guardai in giù con il batticuore. Bene, proprio a ridosso del vecchio e romantico ponticello era venuta su la diga e lo aveva umiliato. Quei cento metri di abisso erano stati sbarrati da un muro di cemento, non solo; il fantastico muraglione aveva continuato ad innalzarsi per altri centocinquanta metri sopra il ponticello e adesso giganteggiava più vertiginoso delle rupi intorno, con sinuose e potenti curve, immobile eppure carico di una vita misteriosa».
Ma è su che fa ancora più impressione: dove c’era la gola, la valle, il lago, sono ora collinette verdi, con gli abeti. Ma quelle collinette erano sul monte Toc, una volta, stavano su. Poi, quella sera scesero tutte insieme, riempirono l’invaso e proiettarono l’acqua in tutte le direzioni, il peggio oltre la diga. Salendo a Casso si vede benissimo, di fronte, il pezzo di montagna che è venuto giù, la grande “emme”, i fianchi in certi punti sono lisci lisci e compatti, ovvio che sia scivolato giù tutto. La disegno.

Qualcuno si è preso la briga di calcolare che se portassimo via cento camion al giorno di terra, riusciremmo a svuotare la valle com’era in sette secoli. Quel che si vede dietro la diga, che pur parrebbe quieta natura per passeggiate e panini al sacco, è in realtà un nonsense, qualcosa che sta dove non dovrebbe, semplicemente perché se così fosse non ci sarebbe stato il lago, l’acqua sarebbe stata pochissima. Ce n’è un po’, a nord della frana, parecchio più su, sotto Erto, un lagolino che fa pena a guardarlo.

Oggi c’è turismo, a Erto ci sono locande e bed&breakfast, qualcuno è persino stabilmente in televisione, vicino alla diga c’è un furgone che vende panini ai tanti motociclisti in vena di pieghe, persino oggi che ne vien giù tanta tanta. Chi è rimasto campa ma son professioni artificiali, cose da vendere ai turisti, sculture in legno e intrattenimento e cibo, non c’è lavoro vero come peraltro accade in tante valli alpine. Un signore a Casso, paese praticamente abbandonato, restaura auto d’epoca per diletto, gli avran dato una pensione, immagino, fa bene ma a vederlo risulta proprio fuor d’acqua, fuor di contesto, come tutto qui attorno. E mi si perdoni l’espressione infelice, qui.

Non sono nemmeno a metà giornata, io, proseguo per altri posti ma il mio racconto è bene si fermi qui, per oggi. Venire al Vajont è una cosa a sé, sarebbe sciocco raccontassi di cose belle che vedrò più su, non ora, il posto e la memoria riempiono tutto quanto, andarsene è come iniziare il giorno dopo, fare un’altra cosa del tutto scollegata. E così sia, proseguo domani col raccontino.


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