Anche se non inattesa, la notizia della morte di Sinéad O’Connor mi spezza il cuore. O forse perché proprio non inattesa, anche quello.
Neanche tanto in là al liceo, a un certo punto apparve una ragazza che cantava un pezzo forte, movimentato, schitarrato il giusto, bella voce e grandissima presenza: Mandinka. Lei, bellissima e selvaggia, poco più grande di me. Ma poco. Si vedeva che era una che faceva da sola, una donna indipendente, forte, chiara e dritta al punto. I don’t know no shame / I feel no pain / I can’t see the flame. E io niente, rapito. A cantar tutto il disco, perché The Lion and the Cobra era, è molto bello. Il suo primo, Troy, Drink Before the War, Want Your (Hands on Me), Just Like U Said It Would B, Jackie, le so ancora oggi. No, dico, ma sentire Never Get Old da 3:02, ancora mi emoziono. E se l’era scritto da sola o quasi, testi e musiche, suonato un po’, cantato tutto, con quella testa rasata, i lineamenti favolosi e quell’aria da tenera dura che mi rapì il cuore allora e ancora l’ha con sé.
Tre anni dopo pubblicò quella gran dichiarazione di intenti che è I Do Not Want What I Haven’t Got. E no, non quella lagna di Nothing Compares 2 U che era ovvio l’avesse scritta qualcun altro ma Jump in the River, favolosa, And if you said jump in a river I would / Because it would probably be a good idea, e poi You Cause as Much Sorrow, The Last Day of Our Acquaintance, Feel So Different, Black Boys on Mopeds e soprattutto The Emperor’s New Clothes, che la so ancora tutta nell’inglese di Orzinuovi. A piedi nudi sul finto palchetto, una follia per i tempi di oltre cinque minuti. Niente, io sempre più rincitrullito, era lei, era lei. Perdio, I Do Not Want What I Haven’t Got tutta cantata senza accompagnamento. Comprai persino un disco degli In Tua Nua, perché ovviamente c’era lei, solo quello.
Poi venne un disco di standards, Am I Not Your Girl?, comprai la cassetta originale, era chiaramente amore, a parte un paio di canzoni note le altre non le conoscevo, mi aprì qualche finestra su altri mondi. Era pur sempre un disco di cover e lei aveva la voce per quelle fino a un certo punto, ma la presi come si deve, cioè un colpo di testa di una che fa quel che vuole. Brava. E io col walkman bello alto.
Poi venne una favolosa versione di The Foggy Dew con i Chieftains, Irlanda su Irlanda, e Blood of Eden con Peter Gabriel e io andai in Irlanda nel 1992 un po’ anche per lei, per i cieli, le scogliere, la musica, tutte le cose che piacciono a tutti e poi anche per lei.
Il 1992 fu proprio l’anno: prima fece incazzare quel pirla reazionario e mafioso di Sinatra, che avrà pure avuto una gran voce ma tale resta, e poi al Saturday Night Live modificò gli ultimi versi di War di Marley e stracciò in favore di telecamera la foto di Giovanni Paolo II al grido di «fight the real enemy». Il riferimento era ovviamente ai reati di molestie sessuali che la Chiesa copriva da decenni e che una donna irlandese finita nelle Case Magdalene conosceva benissimo. Io, secco. Aveva ragione da vendere, santoddio, e un gesto del genere servì eccome per sollevare la questione e il dibattito. Fu, naturalmente, massacrata in ogni dove da quegli ipocriti stronzi che poi nel privato delle case e delle canoniche facevano le cose più immorali e indegne, furono devastati i suoi affetti, le sue opere, il suo lavoro e la sua vita privata. Ci vollero nove anni, nove!, da allora perché Giovanni Paolo II riconoscesse gli abusi sessuali all’interno della Chiesa, maledetti, Madonna non perse occasione per guadagnare visibilità alle sue spalle, ipocrita pure lei con quel tanto di nome. Lei sì, oscena. Sinéad O’Connor disse poco tempo dopo: «Everyone wants a pop star, see? But I am a protest singer. I just had stuff to get off my chest. I had no desire for fame» e io la elessi a mia guida. Se mi avesse detto di lasciare tutto e andare a guidare una tribù di Ubangi nel deserto, probabilmente l’avrei fatto.
Giovane, spregiudicata, bella, decisa, soprattutto nel giusto, era come mi sentivo io nello stesso momento. C’è quel momento, noto, in cui al concerto in tributo per Dylan tutto il pubblicò la fischiò rumorosamente e lei, dopo un ovvio momento di sconcerto iniziale, recitò War a gran voce di fronte a un pubblico ostile e poi, giustamente, scoppiò a piangere. Molto per una donna di nemmeno trent’anni.
Poi pubblicò Universal Mother, di cui di sicuro Red Football, sacrosanta rivendicazione contro la violenza infantile e femminile, Fire on Babylon, l’importante Famine e il saluto a Cobain con All Apologies – l’unica canzone dei Nirvana che mi piaccia per davvero – furono gli aspetti salienti. Nel frattempo, aveva lasciato crescere i capelli e dio come avrei voluto che non fosse così sola nelle sue battaglie.
Nel 1997, finalmente, riuscii a vederla dal vivo, alla festa dell’Unità di Correggio, allora importante appuntamento musicale oltre che politico. Fece due concerti, uno ufficiale prima e uno dopo con la chitarra seduta tra noi perché ne aveva voglia, l’ho raccontato qui, aveva appena pubblicato Gospel Oak e This is a rebel song mi colpiva. E in concerto era come su disco, anzi meglio, era proprio così, un talento smisurato. Riuscii a scambiare due parole maldestre, il cui senso era grossomodo io ti amo e quel che fai è giusto grazie tieni duro ti amo fammi venire con te. Una cosa del genere, non più strutturata ma perdio sentita e sincera.
Poi passò parecchio tempo prima di un nuovo disco, Faith and Courage, di cui ricordo senz’altro No Man’s Woman con cui facevo lunghe passeggiate nella pineta di Cecina, al tempo, e la donna decisa e sicura di sé, come è giusto che sia e come ciascuno deve essere libero di essere, lasciò il posto alla donna incerta, sentimentalmente improvvida, sempre però chiara negli interventi, vedi la lettera pubblica a quella rinciulita di Miley Cyrus, ma insicura per sé e alla ricerca, alla fine, di affetto e comprensione che non riceveva. Seguirono solitudini, conversioni assurde, lutti familiari di grande dolore, alcune manifestazioni di pericolo negli ultimi anni, alcuni dischi di cui uno peraltro buono e riconosciuto, I’m Not Bossy, I’m the Boss, quasi dieci anni fa, ma con un messaggio e un’estetica ormai compromessi, innaturali, tatuaggi un po’ a caso, una tristezza di fondo impossibile da non percepire. «Sono stata una persona molto travagliata», disse di sé poco tempo fa e mi colpì che parlasse di sé al passato ma mica perché si fosse risolta, poi sparì alcuni giorni e si temette il peggio, poi ebbe periodi bui in cui non ebbe paura di parlare di disagio mentale e del suicidio di uno dei figli e io, qui da lontano da sempre ma sempre innamorato, dispiaciuto del suo dolore. E sempre con The Lion and the Cobra e I Do Not Want What I Haven’t Got sul piatto, nella testa quella sera a Correggio e quella foto strappata.
Poi, oggi, è successo. E mi fa schifo che il Corriere titoli: «È morta Sinead O’Connor, la cantante di Nothing Compares 2 U aveva 56 anni», che è proprio quello che non era e che aveva deciso di non cantare più, anche se ci mise un gran coraggio a mettere il bel faccione, bianco e pulito, nel mezzo dell’inquadratura per tutta la canzone. Il Guardian nel 2021, recensendo la biografia di O’Connor, scrisse che era «full of heart, humour and remarkable generosity» e parlava di lei, Sinéad O’Connor, non del testo, e io non potrei essere più d’accordo. Tanto tanto cuore, grande generosità, che poi si sbaglia per eccesso, capita di continuo anche a me, ma vivaddio, averne di cuore e generosità invece dei miserabili dei tornaconti personali e della parola sempre in meno, averne, averne. Anche ora scambio tutto per una Sinéad in più.
Ciao Sinéad, addio, che dove stai andando tu possa essere ancora travagliata e piena di cuore, di prese di posizione, di convinzioni, di battaglie da compiere. Non ti auguro la tranquillità come non la auguro a me, non ti auguro la pace, figuriamoci, né il riposo, ti auguro di continuare a essere quello che sei stata, la donna decisa, la donna bella e coraggiosa, senza tutto il dolore dopo, quello della solitudine e della malattia, come hai detto. Selvaggia, indomabile e piena di contraddizioni, come tutte le persone di cuore sono. Non è giusto sia andata così e non da oggi e ciò che fa male è che, come dicevo all’inizio, non era inatteso. Che cazzo, Sinéad, quanto tempo è passato e quei bei tempi che non lo sono mai stati davvero, sapere però che hai detto che è stato l’enorme successo di Nothing Compares 2 U a mettere realmente in crisi la tua carriera, mentre l’aver strappato la foto del papa ti ha fatto tornare «sulla giusta strada» è una delle cose bellissime che ricorderò di te. Perché hai ragione.
E proverò a essere coraggioso come lo sei stata tu. Fanculo, miserabili.