minidiario scritto un po’ così di una scampagnata inglese: sette, amministrazioni, libere repubbliche e vento che riporta a casa

Comprendere l’amministrazione inglese soprattutto a livello locale è pressoché impossibile per uno del continente. Per esempio, e per restare a Bristol, dal 2012 ha un sindaco eletto direttamente dai cittadini (Mayor of Bristol), che non va confuso col “Signor sindaco” (Lord Mayor), che è il vecchio ufficio sindacale – nel senso di ‘del sindaco’ – nominato annualmente dal consiglio comunale che lui poi presiede. Non mi è chiara la distinzione. Ancor meno il fatto che la città faccia parte di una contea cerimoniale, cioè che non ha funzioni di governo locale ma è presieduta da un Lord luogotenente, ma è anche l’unica città inglese, e qui la cosa diventa davvero oscura, a far contea a sé, cioè a non avere ulteriori suddivisioni. Ecco, queste cose bisogna saperle per superare l’esame per la cittadinanza e non ho accennato alle unità di misura, i tre ottavi di un’oncia gallese. Nella mia beata ignoranza, mi beo appunto del riutilizzo delle cabine telefoniche nei modi più vari, condivido la mia piccola collezione raccolta in questi giorni.

Vincono le piante. La chiesona nel centro di Bath, proprio a fianco delle terme, non è una cathedral ma un’abbey, eppure non ha convento o monaci, va’ a sapere. Un tempo, magari. Impossibile affrontare anche il campo delle distinzioni amministrative ecclesiastiche. Comunque, ha di notevole che tutto l’interno è tappezzato di lapidi sepolcrali, non solo il pavimento ma anche tutti i muri. Sono all’inglese, nel senso che l’iscrizione è dettata da chi resta, marito moglie figli genitori, in onore del defunto, non è un’epigrafe impersonale. Per cui, ce ne sono alcune commoventi, come la moglie che parla del marito non solo come marito ‘ma migliore amico, perso chissà dove’. Credo, soprattutto quelli sui muri, siano cenotafi, non sepolture. Ed è molto bello che siano in chiesa e leggibili da chiunque, è una specie di raccolta di lettere d’amore in morte, oserei avvicinarle alle lettere dei condannati a morte per il fatto di esprimere un ultimo saluto riconoscente.

Non mi stupisce, dunque, incontrare qui Natalie Merchant, impegnata come me a leggerne e trascriverne alcune, una sua canzone ha proprio a che fare con questo, My beloved wife. Ne parlerà poi al concerto. Del concerto, ne segnalo alcune modalità interessanti, secondo me da importare: apertura porte presto, poi apertura bar interno, uno o due a seconda della sala, chiacchierine fino al momento, poi avviso e tutti dentro. A un certo punto, intervallo, chi vuole bagno bar chiacchiere. Poi ripresa. Da noi si usa per i concerti di classica e lirica, non sempre, e basta. Invece è il teatro sia che sia prosa o musica pop o lirica, sempre stato così, per quello abbiamo i foyer. Ma noi ormai i concerti rock e pop li facciamo nei palasport, con la morte dell’acustica. Che va benissimo per i Green Day, meno per Merchant, almeno d’inverno.

Siccome anche Bristol è a un lancio di sasso da Bath, vado. Anche perché ha l’interessante prerogativa di avere un aeroporto, cosa che potrebbe essermi utile a breve. Venti minuti di treno e vualà, Bristol. Che ha la caratteristica di essere una grande città portuale, molto vicina al canale che il sistema fluviale di Avon e Severn condivide con Cardiff. Fino a pochi anni fa c’era una linea stabile di transatlantici da Bristol a New York, mica è un caso che John Cabot, loro lo chiamano così, sia partito da qui nel 1497. Ma in contraddizione, forse, con la natura portuale e quindi rude è anche la città dei cartoncini di media rigidità ma di alta qualità, i cartoncini Bristol per l’appunto. E in ogni città frequentata d’Europa c’è o c’era un Hotel Bristol, ne ho visti di recente a Pesaro e Varsavia. E sempre in contraddizione, ma forse no se c’è relazione come suppongo tra porto e musica, è la città del trip hop, Massive Attack, Tricky, Portishead, questi ultimi quelli che preferisco. E di Banksy e della street art, i due ambiti sono strettamente connessi, da Del Naja in giù. Ne posto solo uno, molto noto, c’ero davanti poco fa prima di sedermi a scrivere in un pub al porto. L’orecchino è l’allarme.

Cose che a questo punto cominciano a mancarmi: bidè. Bidè. L’ho detto il bidè? Insalata, ma che sia solo quella: insalata, al massimo con altre verdure, senza alcuna salsa o condimento. Un po’ di frutta che non costi quindici barili di birra e faccia mediamente schifo. Mmm, che altro? Gli amici, un po’, certo, un po’, e un paio di parenti, direi. Ma tanto torno a brevissimo. Insalata. La mia motoscurreggia che l’avessi qui girerei come un matto, cercando di pigliare le rotonde dal lato giusto. Basta, mica tanto, in realtà. Insalata. Centonovantatre chilometri a piedi, ventotto salsicce, mezza birretta, alcuni musei, un paio di splendide camminate in collina, due concerti, le solite cose meteo, un solo bus a due piani, almeno due persone con cui qualche riga ce la scriveremo, una bella scorpacciata di stimoli, buoni fino alla prossima.

Me ne vado a spasso per la libera repubblica popolare di Stokes Croft, quartierino popolare bello e disastrato di Bristol, vittima sulla strada principale della solita gentrificazione ma che venti centimetri dentro resiste in qualche maniera. Certo, la creatività, spazi sociali, etichette discografiche, consultori, tutto subisce una frenata violenta in questi tempi violenti, tra Sunak, Truss e Johnson per restare al locale non va certo bene.

Un mural invita a boicottare Tesco in favore del local, certo, poi tutti vanno comunque lì perché costa meno, fosse ancbe per ubriacarsi mentre si cerca di dormire per strada. Lascio due caffè sospesi al Cafe Kino, in realtà due cose calde per chi le chieda, gesto piccolino con cui vorrei contribuire un poco e salutare i miei di nuovo amici inglesi. Certo son fatti un po’ così ma è il loro bello, ho ricevuto tanta gentilezza e sincera cordialità, anche qualche risata proprio ben fatta, qualche abbraccio e stretta di mano davvero calda. Meno su, Liverpool e Manchester, più giù, come è sempre. Poi, come sempre, l’unico sciacquone che non va in tutta l’isola è qui, perché cari compagni figuriamoci se siamo così borghesi da riparare un cesso. O da non romperlo, ancor di più.

Leggo or ora: ma proprio Cameron, maledizione? Non è possibile, ministro degli esteri dopo l’estromissione dell’altra. Non va certo bene no, da qualche parte è pieno di inglesi insopportabili, egoisti e deficienti, direi altrove rispetto a dove sono stato io, perché l’ipotesi che alcuni possano essere amabili e deficienti ed egoisti allo stesso tempo trascende decisamente la mia comprensione.

Vien su un ventone e per me è tempo di tornare, non prima però di aver visitato il Bristol Museum & Art Gallery, noto fin dal 2009 per quell’esposizione colossale di Banksy che, nemmeno pubblicizzata, portò a code di sette ore e più per giorni. Ma qui son maestri di coda, in effetti. Come molti altri musei inglesi l’edificio stesso merita la visita, i due cortili interni chiusi dominati da balconate offrono spazi sociali rilevanti, le poltrone e il bar invitano a stare, che cosa difficile per noi. Sto, come tanti, oltre a tutto è domenica e l’entrata è a offerta libera, civile. Anche le collezioni sono all’anglosassone, mescolate, con alcuni datati e buffi diorami su flora e fauna locale, modellini dell’Avon gorge, polverose riproduzioni plastificate di fauna africana ed esotica, che meraviglia.
Ci sarebbe ancora molto da raccontare o dire, chiudo qui. È stato un primo esperimento di reale lavoro itinerante ed è andato bene: qualche videochiamata dall’albergo, qualche giornata di lavoro in biblioteche o bar tranquilli, qualche sera in albergo, qua e là. Forse lavorando male di mio solito non s’è percepita differenza, meglio. Un preludio a qualcosa di più costante e strutturato, vedrò come va, al momento bene. Di sicuro la mia riconciliazione con quello sciocco, arguto, amabile, divertente popolo che sta là su è avvenuta, ci rivedremo presto perché ho ancora ampi spazi di esplorazione. Speriamo votino meglio le prossime volte.


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