Presente il buio? Il buio, quello vero? Quello nero nero in cui non c’è alcuna luce artificiale, nemmeno quelle piccole dei tralicci, delle auto, di qualche casa. In Europa certo che no, forse ancora in alcune zone centrali della Spagna, ricordo, qui è abbastanza assoluto fuori dalle città lungo il fiume e, ovviamente, nel deserto. Il fatto è che cento e rotti milioni di egiziani abitano stretti stretti attorno alle rive del fiume, compressi in città minori da un milione e mezzo di abitanti, in grande crescita. E dunque? Dunque il piano di sviluppo dell’Egitto moderno comincia con la prima diga, inglese, ad Aswan, la produzione di energia e il controllo del corso e del flusso del grande fiume, facendo passare i raccolti da uno, in occasione delle piene stagionali, ad alcuni. Non ci volle molto tempo che fu necessaria una seconda diga, molto più grande, allo scopo di produrre molta più energia elettrica e, al contempo, un enorme bacino d’acqua dolce sempre disponibile. Acqua più energia significa agricoltura e spazi non ancora coltivati in Egitto significa deserto. E infatti.
La storia geologica di questi territori racconta come fino a diecimila anni fa tutto fosse ricoperto da una rigogliosa savana e già questo basterebbe a mettere in crisi le nostre idee di stabilità. In ragione di questo, poco sotto la sabbia si trova ancora oggi la terra, per cui mi spiegano che basta l’acqua per coltivare il deserto. E i semi, certo, ma quello non è difficile. Ecco la ragione di certe strisce verdi uniformi nel deserto che paiono dipinte a casaccio, come nella foto sopra. Grano. Come negli Stati Uniti, enormi irrigatori di quelli che girano attorno a un punto al centro e producono campi circolari rendono produttive le zone dell’alto Egitto in Nubia. Ma l’acqua al deserto bisogna portarla e allora canali, tubi, strade, cementifici, tralicci infiniti, strada belizima, belizima mi dice, ed è vero. È tutta a gobbe e non sempre dritta ma è nuova e rispetto alle altre belizima, l’autista sta al centro più che può e chi è più piccolo fa andare le ruote nella sabbia. E tra poco la raddoppieranno. Qua e là nel deserto impianti elettrici presidiati da guardie armate, piccoli centri di produzione di cemento, cantieri, camion carichi all’inverosimile con rimorchi altrettanto, ruspe belle e ruspe scassone. Gli operai hanno turni di quaranta giorni nel deserto, che sia strada o canale o tubatura e poi qualche giorno di riposo in città, tutto sotto il governo dell’esercito. Che come accade negli stati militari, e dittature come in questo caso, si occupa di tutto quanto competa allo stato.
All’agricoltura seguono le case, ovvio. Prima attorno ai campi nel deserto, spuntano condomini gialli abbastanza tremendi, sembrano i nostri outlet finto-borghi, conchiusi e circondati dal nulla. E poi le città, New Aswan, New Luxor, New Cairo, i cartelli stradali rimandano ormai di qua o di là, a seconda. La nuova Cairo, capitale che conterrà anche tutti i nuovi edifici di governo, è un’enorme palma artificiale di Dubai spalmata per decine di chilometri nel deserto, illuminata dall’aereo mette un po’ di inquietudine. E ogni spartitraffico ha palme o oleandri o piante fiorite varie. Il faccione di Al Sisi è dappertutto, cartelli ovunque che inneggiano alla grande ascesa dell’Egitto attuale. La conferenza sul clima, il nuovo museo egizio, la pompa, la retorica e come da pagina uno del manuale anche una parte significativa della popolazione in condizione indecente, corruzione e un’inflazione spaventosa per cui la lira egiziana non ha più le monete ma solo carta e andare al cesso costa venti pounds, o lire egiziane. Lo stipendio di un insegnante ne vale seimila, circa duecento euro per fare i conti in tasca ad altrui e l’inflazione pare sia quintuplicata dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina.
Ad Aswan il Nilo ha le sue prime cateratte, ovvero isole, scogli e rapide di granito, che storicamente non solo interrompevano la navigazione ma separavano da sempre i regni nubiani da quelli egiziani. Se proprio uno avesse dovuto costruire una diga, ma se proprio proprio, avrebbe avuto senso farla qui. E così è stato. Ci inoltriamo in Nubia, dunque, per alcune ore di corriera nel deserto per arrivare a settanta chilometri dal confine sudanese. Perché lì c’è Abu Simbel, uno dei templi più importanti e belli dell’Egitto classico e sicuramente quello che colpisce di più il nostro immaginario, con i colossoni. Anche per il salvataggio che se ne fece, con un’idea svedese che sembrava più che altro un’idea danese, smonta e rimonta. Ma per oggi è abbastanza e io devo tornare dal deserto al fiume.
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