Vagolando per le piane a sud di Milano, so per certo e per esperienza che c’è una cintura di abbazie che cinge la parte a sud est della città, tutte risalenti grossomodo ai secoli tra dodicesimo e tredicesimo e legate a quella tipologia padana del luogo agricolo-religioso, talvolta fortificato, che punteggiava tutta la pianura e che ne gestiva coltivazioni, privilegi e commerci. In particolare, tre, ciascuna a un quarto d’ora l’una dall’altra, da ovest a est: Mirasole, Chiaravalle e Viboldone.
Beh, visto che lo so, ci vado. Mirasole ha la struttura più significativa di cascina-abbazia perché fortificata, una grande aia centrale e un tozzo ma arioso chiostro a nord, affiancato dalla chiesa, l’attività particolare era la lavorazione della lana, in particolare la trasformazione in feltro. Che per quanto ne so io, zero, basta lasciarla lì e quella infeltrisce. E poi nessuno mi chiede mai consiglio…
A parte un incongruo balcone con colonnato settecentesco, il complesso è ancora leggibile, sebbene non ne resti moltissimo. Il recupero è stato fatto in modo tradizionale, parecchi ambienti sono affidati ad associazioni più o meno benefattrici, le grandi sale per i corsi, qualcuno ha pensato a un bar ed è stata una buona idea, per il cappuccino seduto al sole nell’aia che mi offro oggi. Secondo me non è un modello sostenibile ma, magari, se qualcuno chiede spiego.
Chiaravalle è certamente la più nota, sia per la discendenza dall’ovvio Bernardo, qui chiamato per frenare le tendenze scismatiche del milanese e riportarlo nell’alveo di papa Innocenzo II a metà del dodicesimo secolo, sia per il funerale di Giorgio Gaber in tempi recenti e per una certa notorietà superiore alle altre due. È anche, fuor di dubbio, la più sontuosa, con la notevole torre nolare (vuol dire che c’è la campana), e la più organizzata, con negozio, ristoro e infopoint.
E frati, qualcuno se ne vede. Scippato il Cristo alla colonna di Bramante, ora a Brera, resta il gran coro ligneo, il chiostro bello e la torre, la ciribiciaccola. Che dice la filastrocca, a un certo punto: Quando i cinquecentocinquantacinque ciribiciaccolini vogliono chiacchierare con la ciribiciaccola / la ciribiciaccola è pronta a chiacchierare con cinquecentocinquantacinque ciribiciaccolini / la ciribicciaccola chiacchiera, i ciribiciaccolini chiacchierano / ma la chiacchierata della ciribiciaccola è più lunga di quella dei cinquecentocinquantacinque ciribiciaccolini. Dilla veloce, dai.
Terza tappa, Viboldone, quasi a Melegnano. Si intuisce il complesso agricolo, enorme, dell’abbazia resta un corpo contemporaneo ancora abitato dalle monache benedettine e la chiesa, di gran lunga l’elemento più interessante. Infatti, all’interno è conservata una serie di affreschi di ispirazione giottesca di grande qualità, riscoperti tra l’altro dalla grande Fernanda Wittgens. Per uno di essi, in particolare, si fa il nome di Giusto de’ Menabuoi che sarebbe il collegamento diretto con la Padova giottesca e la parte a lui attribuita con buona approssimazione è il giudizio universale.
Di impianto tradizionale, al centro Dio nella forma vulvare che tutto sovrintende, a sinistra i buoni e pii scortati dagli angeli amichevoli, a destra un diavolazzo che ingoia gli scellerati e li defeca direttamente nella bolgia, riprendendo in questo gli esempi di Buffalmacco al camposanto di Pisa, il più formidabile che io abbia visto finora, e di Giovanni da Modena nella cappella Bolognini nel Duomo di Bologna. Ma ancor più bello è un particolare in alto, anzi due: due angeli che a destra e sinistra sono intenti ad arrotolare il tempo della storia, facendo intravedere dietro la Gerusalemme celeste. Il motivo è già presente nella cappella degli Scrovegni. Giotto, appunto, tutto torna.
È il giudizio universale, signori, poi si chiude. Si arrotola tutto e bon, arrivederci. Strepitoso. Mi ricorda al volo il Belli de Er giorno der giudizzio: «All’urtimo uscirà ‘na sonajera / D’angioli, e, come si ss’annassi a letto, / Smorzeranno li lumi, e bona sera».
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