Niente, la maggioranza degli italiani aventi diritto non vota. Tutti idioti menefreghisti? La tentazione di risolverla così è forte, mi metterebbe anche in pace cone stesso sulla mia condizione di non idiota, visto che voto. Temo purtroppo non mi vada così liscia.
Nei giorni precedenti le Europee chiedo esplicitamente alle persone più vicine: voterai? Non è come fare domande sulle tasse ma da qualche tempo un po’ di ansia la genera. Qualcuno tentenna, si vede, qualcuno sceglie per la verità, qualcuno no. Poi non va benissimo, astenuti quello che manca tra 48,31%, i votanti, e cento per cento. Venti e rotti milioni di persone.
Questo è il dato complessivo UE. Meno interessante la distribuzione territoriale dell’astensionismo, non è che si noti alcunché di nuovo o imprevisto.
Mai una sorpresa in questo paese. Comunque, al giorno prima delle votazioni, sette giugno, il mio personale sondaggio interno tra le persone più vicine dà il seguente risultato: sei astenuti; tre uomini e tre donne; tutti ampiamente sopra i quaranta, una sopra i sessanta, uno i settanta. Motivo: cinque al mare, non insieme tra loro, non tutti, il sesto non si è premurato di chiedere dove votare, se nel paese di origine o in quello di residenza, entrambi UE. Tutti buona o alta o altissima scolarizzazione e tutti, senza eccezione, con consapevolezza e coscienza politica. E ultimo e peggio: tutti voti a sinistra. Persi.
Ovvio, ci resto male. E per qualcuno vola pure un vaffanculo. Ne avrò diritto, poi? Forse no, però diciamo che aver fatto qualche sforzo per accompagnare tre ultrasettantenni non esattamente deambulanti al seggio qualche prerogativa, forse, me la dà. O me la arrogo, perché ci credo. E poi qualcuno ha pure il coraggio di sostenere che siano i giovani a non votare, pelandroni disinteressati.
Comunque, oltre a rimanerci male, non capisco. È un florilegio di: avevamo prenotato prima, è l’unico periodo possibile per andare, la mia amica, amico può solo in questo momento, nessuno azzarda le spiegazioni dei più giovani, tanto non cambia nulla. Come se il riposo dalla freneticissima vita lavorativa e non meno l’investimento per la camera d’albergo, il volo, il boccaglio costituiscano ragioni inoppugnabili, di per sé e ai miei occhi, che interrogo. Quello diviso tra i due paesi abbozza qualcosa su una qual disorganizzazione tra i paesi, pur non avendo fatto alcuna domanda. Il punto è che questi, a sinistra, li abbiamo persi. Se ci sono, votano. Se è comodo, eccome. Ma se è giugno, o settembre, o c’è la sagra del pesce fritto a Porto Empedocle, o serve fare qualcosa per accreditarsi al voto, ciccia.
Però il 28 maggio la maggior parte di loro, le donne direi per introdurre a questo punto pure una questione di genere, sono in piazza, il 25 aprile pure, le canzoni di Ivan della Mea le sanno. E allora? Forse sono le europee, alle politiche forse sarebbero andati. Probabile, visto che nel 2022 la percentuale di votanti fu il 63,91%, è di certo così.
C’è un però, però. Ed è un però bello grosso secondo me. Ritenere più importanti le politiche rispetto alle europee è frutto di una visione obsoleta e condizionata dalla propaganda locale. Proprio le stesse persone che lamentano un’Unione europea debole e poco integrata ritengono poi secondarie le elezioni stesse, quando invece nell’ottica dell’integrazione presente e futura è proprio il contrario: oggi le elezioni più importanti sono, appunto, le europee e le regionali, viste le deleghe poderose che anni di federalismo e localismo hanno garantito, sanità in primis. Per queste due serve votare veramente. Non per elezioni in cui il capo del governo gestisce sì e no un quarto della finanziaria e che, di volta in volta, avrà sempre meno capacità di intervento. Perché l’integrazione europea va giustamente in questa direzione.
Certo, poi ci sarebbe da capire chi si occupi dei diritti, perché né di qua né di là, attualmente, ciò accade. Se poi votate Meloni, stiamo proprio belli freschi.
E fanculo a chi non ha votato, comunque.