Ridiscendo dalla mia “Ascensione al monte Venda”, sudato, sbracato, stanco ma felice e ohibò trovo l’auto aperta. Ma aperta bene, nel senso non forzata ma aperta con para-telecomando solo su un lato, che nemmeno saprei come fare. Ma dico, non ero io, perché ti sei aperta? Comunque, mi hanno portato via la borsa con tutti i vestiti, compresi alcuni freschi di lavanderia, tranne un panama di plastica che non capisco perché. Quindi sono così, maglietta e pantaloncini sudati e maleodoranti e basta. Manco le chiavi di casa che avevo, saggiamente, pensato di non portare sui sentieri ma di nascondere astutamente. Bravo, me.
Ma siccome non mi farò certo rovinare la fine settimana (femminile, femminile) da un accidente così, decido di restare in giro. Anche perché comunque non ho le chiavi di casa, quindi non saprei come entrare. Ma prima, il dovere civico: la denunzia alla pubblica autorità. Già sapendo come andrà.
E infatti: «Ma perché è venuto da noi?», cominciamo bene. Perché siete i carabinieri e la vostra stazione risultava aperta da gugol. «Eh, ma ce n’erano altre», molto bene. La giovane marescialla? appuntata? signora carabiniera? non so come chiamarla, non ha ovviamente alcuna voglia. La cosa, intendo la denunzia, diventa difficoltosa, anche cercare di farle capire che non esista un numero civico al quale fare riferimento, essendo un bosco, e che non ho idea in che comune il fatto sia avvenuto, potendo darle comunque il punto esatto e che dovrebbero saperlo loro, essendo della zona, sono cose semplici solo sulla carta. Tralascerò l’ora e quaranta per scrivere mezza pagina per condividere solo il momento in cui l’appuntato in borghese, intervenuto altrimenti sarei ancora lì, mi dice che – soggetto non definito, il classico «Loro» – non li lasciano lavorare – ribatto che il governo è totalmente con loro, ancora, quindi di chi parla? – e che, questa la cito: «Il papa e i buonisti d’Italia dicono che loro sono fascisti», e con loro stavolta intende lui-loro le forze dell’ordine. Se la polizia mena gli studenti a Pisa senza motivo, sì, son fascisti, dico. L’approccio è quello. «Un episodio», dice lui, e bon, vorrei la mia denunzia e trovare un posto per una doccia, almeno fino a poco tempo fa stavano un poco più zittini, con meno sponde.
Sono ancora in braghe di tela, letteralmente, e piuttosto impresentabile. Decido di ricostituire il mio guardaroba e con una puntata veloce a Padova, dieci chilometri ed è una delle caratteristiche dei Colli Euganei, vado da decathlon e in otto minuti e quaranta euro son vestito esattamente come prima. Pulito fuori, meno dentro.
La mia amica T., nonché vicina di casa, tornerà domani sera a casa e solo allora potrà darmi copia delle mie chiavi, molto bene, sto in giro. Visto che ne ho emulato le gesta ascensionistiche, vado a trovare il poeta, Petrarca ad Arquà Petrarca. Ormai in età avanzata, lasciati i libri alla futura biblioteca Marciana, desideroso di quiete e frescura dopo una vita di viaggi per l’Europa e incarichi remunerosi, negoziò con i da Carrara la concessione di un buen retiro sui Colli e ne ricevette la casa perfetta, non grande ma nemmeno troppo parva, ma molto apta come disse quell’altro, un giardinello, paesello incantevole, vista eccellente, tutte le stanze perfette e le scale e i balconi pure, vi trascorse gli ultimi anni con la figlia e il nipote o i nipoti. La figlia, chiamata Francesca con evidente poca fantasia, l’ho già incontrata: è curiosamente sepolta nella chiesa di San Francesco a Treviso. Non curiosamente a Treviso, curiosamente che nella stessa chiesa sia sepolto anche il figlio di Dante, Pietro. Scriveva invece il padre, nel 1371 in una Senilis, «Mi sono costruito sui colli Euganei una piccola casa, decorosa e nobile; qui conduco in pace gli ultimi anni della mia vita, ricordando e abbracciando con tenace memoria gli amici assenti o defunti». Costruito forse no, il resto tutto vero.
Mi rendo conto di quanto la mia percezione di Petrarca sia diversa da quella di molti dei visitatori della casa. Mentre ne colgo il professionismo, l’abilità politica, l’assoluta padronanza della versificazione, in realtà per buona parte è il poeta dell’amore. E i muri attorno alla casa sono ricoperti di graffiti amorosi, peraltro tutti nella stessa forma: il cuore con le iniziali, quello per intenderci da albero, con talvolta la data. E devo dire che non mi dispiace affatto, viene abolita la prima persona, solo l’iniziale, in favore dell’entità comune, la somma dentro il cuore, un buon modo.
Val la pena raccontare ancora un paio di cose su Petrarca ad Arquà. Conscio delle cose della vita, fece testamento disponendo che il suo corpo, «reso vile dalla dipartenza di quella eletta scintilla che forma la parte migliore di noi», fosse sepolto «senza alcuna pompa, ma con ogni umiltà ed abbiezione» in un’umile cappella attigua alla chiesa. La pompa ci fu eccome e la cappella pure ma per poco, poi fu eretto un bel sarcofagone in marmo rosso di Verona sulla piazza della chiesa. E fino al 1630 tutto restò tranquillo.
In quell’anno, una bella compagnia di «persone assai corte di mente», tra cui anche il frate domenicano Tommaso Martinelli da Portogruaro, addetto alla direzione spirituale della parrocchia di Arquà, decisero di dare una bella occhiata nell’urna e, spaccato il marmo, pasticciarono i resti asportando parti del braccio e della mano destra, notevoli per uno scrittore poeta. Saputo del reato, la magistratura avviò le indagini e per determinare l’entità delle asportazioni fece riaprire il sarcofago, introducendovi un ragazzino dalla piccola fessura. Il quale ovviamente fece più disastro che perizia: «Le ossa del poeta ebbero assai più a soffrire per la constatazione del furto voluta dalla legge che per il furto stesso». Martinelli, condannato, si diede alla macchia e con lui il braccio destro di Petrarca.
Nel 1843, il conte Carlo Leoni, storico ed epigrafista, finanziò il restauro del sarcofago e riaprendolo testò la tenuta del cranio che «non dava nessun indizio di sfasciamento, tanto che avendolo leggermente percosso colla nocca del mio dito indice rispondeva col suono della più perfetta adesione delle sue parti» e visto lo sforzo ben pensò di tenere per sé una costola e un pezzetto di tunica. Nel 1855 le autorità austriache ordinarono la restituzione di quanto prelevato e la tomba fu di nuovo aperta. Ma non basta: il 6 dicembre 1873, in occasione del quinto centenario dalla morte del poeta, il docente di anatomia comparata e fisiologia generale all’Università di Padova Giovanni Canestrini riaprì il sacello e dichiarò che il cranio di Petrarca andò in frantumi non appena toccato, tanto da non poterne trarre un calco, e che le ossa mancanti dallo scheletro erano due vertebre dorsali, il coccige, una costola, l’omero destro, l’ulna destra, 68 ossa piccole di mani e piedi. Ah, Martinelli. Nel 1943 l’intero corpo fu prelevato e spostato a Palazzo Ducale di Venezia, nascosto sotto lastre di marmo causa bombardamenti e, a guerra finita, ricollocato.
Con l’occasione del settimo centenario, il 18 novembre 2003 l’anatomo-patologo Vito Terribile Wiel Marin – un nome da film di Balasso – e la sua équipe riaprirono, ancora, la tomba ed esaminarono i cocci del cranio con il metodo del radiocarbonio. E vualà la surprais: un cranio antecedente a Petrarca di almeno un secolo se non due e, meglio ancora, un cranio di donna. Ottimo. Quindi? Quindi con grande probabilità il vile Canestrini sostituì il cranio del poeta con un altro, antico perché non voleva dare nell’occhio, rompendolo o avendolo già rotto, e portandosi via l’originale prezioso. Ne trasse il calco che fu poi ritrovato nei sotterranei dell’Università e che più o meno corrisponde alle misure dichiarate da lui stesso e grazie al quale noi oggi supponiamo di conoscere la fisionomia di Petrarca. Dove sia finito il cranio, nessuno lo sa. Nella tomba riposa, diciamo, quindi un ircocervo, una chimerica assurdità con corpo parzialmente del poeta e testa di donna, risultato della instancabile azione degli uomini vuoi per ammirazione, avidità, stupidità, scienza, lettera e testamento. Ma, come disse lui, è solo il corpo «vile», senza «la parte migliore».