minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: zero, avvicinamento, ottomani, augurii

Ancor non prendi a schivo, ancor sei vaga / di mirar queste valli? La luna, s’intende. Queste valli son qua ma il pastore, quello che corre via, corre, anela, / varca torrenti e stagni, / cade, risorge, e più e più s’affretta, / senza posa o ristoro sta invece in Asia, là da qualche parte e che, nonostante la lontananza, condivide il destino comune col poeta e con tutti noi, presenti, passati e futuri. Ecco, io quelle montagna e valle, i sassi acuti, ed alta rena, e fratte li voglio proprio vedere e, soprattutto, quel cielo, proprio quel cielo del Che fai tu, luna? Non farò il pastore né il poeta marchigiano ma diciamo che un’occhiata desidero darla da molto. E se ci sono passati gli achemenidi, i sasanidi, i greci, i persiani, i mongoli, gli ottomani, i russi e gli inglesi, poi i sovietici perché io no?

E poi viaggiatori di ogni tipo, sia da qua che da là, il più noto tra i nostri e uno dei più avventurosi disse molte cose di questa parte di terra del suo viaggio, tra cui la famosa frase: «Samarcan è una nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini» per una delle tappe più note e poi raccontare il fatto strano della pietra saracena. Ma quando ci passò lui, Marco Polo, erano già millecinquecento anni che ci era passato Alessandro il Grande, lungo la via reale persiana, e sono le sue tracce che voglio seguire, fino alla valle di Farghana e ad Alessandria Eschate, Alessandria la lontanissima, tra Battriana e Sogdiana, voglio arrivare fin là, in quelle valli glaciali. E mi rendo conto, anche stavolta, di non sapere nulla di luoghi in cui la civiltà umana è cresciuta, si è confrontata e scontrata, ha avanzato e receduto, si è diffusa in mille rivoli diversi di cui io non conosco nemmeno i nomi. Ne ho snocciolato qualcuno poco fa e paiono inventati, che vergogna. Se alla fine del viaggio distinguerò timuridi da shaybanidi sarà un risultato colossale, visto che ho appreso poco fa dell’esistenza degli aghlabiti e dei kharigiti, figuriamoci. Che poi a me piacerebbero le foreste baltiche ma chissà come mai finisco spesso nelle zone desertiche dove l’umanità ha preso davvero forma. Ma non ti piace il fresco dei pini lèttoni? Va’ a sapere come prendo le decisioni.

Bagaglio? Facile. Di giorno la temperatura è attorno ai quaranta, di notte ai trenta. Secco, certo, e quando lo dico le persone fanno: aaah, beh, come se percepiti fossero diciotto. Quindi poche cose lavabili facilmente, l’obbiettivo come sempre è una borsa sola, piccola magari. E pazienza se i colletti bianchi tagiki mi guarderanno con sufficienza o i miei eventuali compagni di corriera cambieranno posto scuotendo la testa. Non mi formalizzo, io, taliano fetente. In realtà, in certe zone del Burbanzistan salirò parecchio, d’inverno si scende anche duecento gradi sottozero, quindi magari una veste da camera la prenderei, sai mai. Il resto è tutto sudore.
In stile r/onebag, ho sfoltito di un terzo la foto iniziale, questa:

La novità tecnologica di questo viaggio sono senz’altro le esim, ovvero embedded, ovvero le schede telefoniche di ogni paese che attraverserò già installate nel telefono, da attivare in volta in volta. Sì, serve un telefono che è capace. Poca roba, per carità, un giga alla settimana per -stan e niente voce, ma mica per i whatsapp e i gattini e i buongiornissimi, figuriamoci, ma per capire come andare da qua a là e dove mi resta la stazione o la madrasa. Che se non è turco è cirillico e se non lo è, allora è arabo.

Il resto sono amenità. Una levataccia per andare all’aeroporto, ehm, mapporc, S. Berluscon. di Malpensa, almeno sui biglietti non c’è scritto (scommettiamo che poi qualcuno dirà che non si poteva fare perché non sono passati dieci anni? solito giochino della destra), poi una serie di non coincidenze che mi costringerà a passare svariate ore in diversi aeroporti. Niente di che, qualcuno diceva che anche questo è viaggio, io sono più per la variante dei non luoghi anche se, in effetti, negli aeroporti non manca proprio nulla e ci si potrebbe vivere, detto anche questo, piuttosto stabilmente. In alcuni, Istanbul dove sto aspettando io per esempio, hanno trovato pure luogo dei musei e nemmeno così disgraziati come uno direbbe. A diciotto ore dalla partenza sarò a destinazione, tutto bene, quaranta gradi oggi. Ma il bosco baltico? Perché non sono là? Come faccio le mie scelte? A mia insaputa? Mah.

Vabbuò, basta con le smancerie, basta con le introduzioni, da ora comincio sul serio. Il migliore augurio che abbia ricevuto alla partenza è senz’altro quello di A., amica capace e di lunga vita: «Torna appagato». Cosa potrei chiedere di più? Nulla. Ora però serve impegno per far sì che le sue parole – che sono in realtà un’esortazione e quindi implicano azione da parte mia – trovino compimento. Che bellezza l’appagamento, non si appaga sé stessi ma un desiderio, la tensione del proprio animo, vien da pacare e a sua volta da pax, ci provo, giuro che ci provo al meglio. Grazie, A.


L’indice di stavolta

zero | uno | due | tre | quattro | cinque | sei | sette | otto | nove | dieci |

Un commento su “minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: zero, avvicinamento, ottomani, augurii

  1. Non mi viene voglia di esserci solo per i 40 gradi. Io pensavo andassi al fresco! Comunque mi piace leggerti. Grazie e buon viaggio. Torna felice!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *