Oltre al mercato, all’hotel Uzbekistan, all’edilizia popolare, il vertice dell’architettura e stile sovietico aggraziato con influenze asiatiche a Tashkent è la metropolitana e la stazione dei cosmonauti mi manda completamente in estasi, tra colonne di vetro, lampadari, pavimenti geometrici e ritratti di cosmonauti. Cadauno per condivisione.
Tutto posteriore al 1966, dopo il terremoto che distrusse tutta la città. La ricostruzione, in stile sovietico, allora al proprio picco, alleggerito da elementi asiatici, è un ibrido davvero piacevole a vedersi e affascinante per me, oltre che fantasioso e sorprendente.
Bando alle piacevolezze, trovo un pullmino che arriva alla frontiera tagika, in direzione Khujand, l’Alessandria Eschate di Alessandro magno. Salgo al volo e dopo poco più di un’ora di campi, case, poi deserto e le prime montagne completamente spoglie, afghane per capirci, scendo a cinquecento metri dalla frontiera. Scendo come tutti, la frontiera si fa a piedi. Cioè, la si può fare anche in auto o camion ma significa sottoporsi a ore di controlli in cui praticamente ti smontano il mezzo, in perfetto stile est-socialista dei tempi belli e il conducente della corriera col cavolo. Ci sono dei tizi che passano la giornata in una fossa nel cemento a ispezionare i mezzi da sotto. Parrebbe paranoia o dimostrazione di forza, in realtà dal Tagikistan passa il corridoio di uscita di tutto l’oppio e l’eroina afghana verso il pianeta, per cui qualche scrupolo c’è. Faccio una foto cercando di non essere giustiziato sul posto.
Sono emozionato a valicare una frontiera a piedi, è un passaggio reale e metaforico, in aereo non se ne ha più coscienza, è una cosa che non facciamo più. Dopo più di un’ora al sole davanti a un cancello chiuso, i gradi sono quaranta, e un militare di tredici anni che decide chi passa e chi no, sono ancora emozionato ma con moderazione. L’uscita dall’Uzbekistan è relativamente agevole, l’entrata in Tagikistan meno. Il militare al controllo mi fa cenno che no e va’ tu a sapere perché. Dopo un bel po’, sempre al sole fuori da una baracchetta, un altro soldato mi dice che il system is down, intende quella webcam minuscola con cui riprendono tutti i volti di chi transisce. Le condizioni si fanno difficili e gentilmente ci fanno entrare ad aspettare nella baracchetta, almeno all’ombra, tra donne tagike, bambini e qualche obeso che soffre come un cane e che ogni tanto bisogna bagnare come fosse una balena spiaggiata. No, non sono io. Non dico niente, sorrido ma cerco di incombere sullo sportello e sull’impiegato. Non c’è una sedia. Non c’è acqua e io la mia l’ho bevuta tutta e sudata. O meglio, c’è un tubo che esce dal cemento, non oso berla ma mi lavo. Ci fanno passare alla sbarra successiva senza che sia cambiato nulla e il mio passaporto ce l’ha un soldato adolescente più indietro. Non c’è nemmeno un bagno, il che griderebbe vendetta, la disidratazione è però tale che nessuno ne ha bisogno. Esperienza interessante e rispetto a quella di un profugo questa è acqua fresca, chi legifera però dovrebbe provare. Saranno passate tre ore, quasi. Sarà poi che i militari hanno mimetiche verdino bile con macchie gialle itterizia pixelate che tutto ispirano tranne che rispetto, meglio comunque tacere. Dai e dai che incombiamo, a un certo punto il soldato chiama l’assistenza informatica e in remoto qualcuno dall’altra parte muove il cursore e sblocca la situazione, passiamo. Io ho sudato tutto il sudabile, ora devo solo trovare un mezzo per Khujand.
Come ogni viaggiatore previdente, mi sono scaricato le mappe, visto che come previsto non c’è alcuna connessione. Previdente ma ignorante, perché in Tajikistan parlano sì il farsi ma la grafia ha mantenuto il cirillico, per rendere le cose ancora più divertenti. Ah, scrivono anche da destra a sinistra, per aumentare il gaudio. Ma tanto io come me ne accorgo? In qualche ora arrivo a Khujand, la maggiore città della zona, perché voglio vedere i resti della cittadella fortificata di Alessandro magno. La città è attraversata da uno dei due grandi fiumi della regione, il Syr Darya, che sarebbero anche i due maggiori affluenti del mare d’Aral, qui lo chiamano mare. Condizionale perché entrambi i fiumi sono ormai canalizzati e prosciugati per irrigazione e non arrivano più al mare che, ormai, tristemente non esiste più, essendo ora una delle più grandi catastrofi ecologiche del pianeta. Il Syr Darya però qui è ancora un fiumone e l’acqua è la più grande ricchezza del Tajikistan, il sessantacinque per cento di tutte le acque dell’Asia centrale sta qui, con buona parte del Pamir sopra i settemila metri di altitudine. Io ora sono a duemila metri ma è come se fossi nel ferrarese.
Finalmente i resti della città di Alessandro, servirono poi innumerevoli volte da baluardo contro gli invasori, tra tutti i mongoli i più terribili. Poi i sovietici ne fecero una caserma e bon, buona parte scomparve. Oggi è ricostruita con piastrelle ceramicate, un angolo ancora c’è. A Khujand Alessandro sposò Rossane, sono abbastanza emozionato. A villa Farnesina c’è un affresco del Sodoma che rappresenta il matrimonio tra Alessandro e Rossane, indice di una conoscenza rara della storia da parte di committente e artista. Lei fu scelta tra molte prigioniere, Alessandro aveva infatti conquistato tutta la regione, Soghd, e fu scelta sia per la sua leggendaria bellezza che per in ragione strategica per l’alleanza con il futuro re della Sogdiana. Mi viene in mente anche l’affresco della battaglia di Gaugamela proveniente da Pompei al museo di Napoli, Alessandro è proprio un bel figurino. Impossibile resistergli.
Oggi è venuta lunga ma la giornata in sé lo è. Vado al mercato in città, bello sovietico anche questo, gran verdure e carni migliori di quanto si potrebbe immaginare, pane meraviglioso in dischi che potrebbe essere un’idea per coprire una settimana.
Scopro l’esistenza dell’olio di cotone, usato per cucinare, direttamente dal venditore. Usano molto anche quello di semi, secondo.
E per oggi basta, che adesso sono a un matrimonio.
zero | uno | due | tre | quattro | cinque | sei | sette | otto | nove | dieci |