minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: tre, invitato, al passo, il mio primo plov, sfusità

La esim tagika funziona. Ci ha messo due giorni, fa caldo per tutti, ma ora funziona come può funzionare qui. Che bellezza la tennologia, così posso mandare il buongiornissimo di ferragosto. Per fortuna anche oggi c’è sereno.

Vagolavo a sera per il centro di Khujand, appena sceso dalla cabinovia panoramica che attraversa fiume e centro – e tutti contro la Raggi, allora -, quando sento musica e vedo luci. Mi avvicino curioso e mi invitano a entrare e io che faccio? Entro, ovvio. Ed è un sontuoso matrimonio tagiko, mi forniscono di foulard apposito da cingere in vita, per gli uomini, e mi versano prontamente della Pepsi locale turbogasata. Ricordo che il paese è privatamente musulmano. La band suona forte, noi si balla uomini con uomini e donne con donne ma l’atmosfera è proprio divertente e spontanea, sono contenti anche di avermi lì. Che bellezza, grazie miei nuovi amici.

Il presidente, di cui devo dire poi, ha promulgato qualche anno fa una legge specifica sui matrimoni, ovvero tetto di spesa che se no poi la gente si svena e tetto di invitati a centocinquanta. Oddio, sarò io il centocinquantunesimo? Saremo tutti arrestati e giustiziati?

Il presidente Emomali Rahmon, Rahmonov all’anagrafe ma ripulito dopo il 1991, è in carica da trent’anni e criminale vero oltre alle sopracciglia brezneviane specifiche del genere. Il popolo entusiasta, certo, ha deciso alla quasi totale unanimità di conferirgli mandato a vita cambiando la costituzione e ovunque ci sono sue fotografie in cui fa cose, nella migliore tradizione dei culti della personalità. Vista la quantità di acqua nel paese, l’idea è costruire dighe ovunque, unendo al socialismo l’idroelettrificazione. Oddio, socialismo. E le dighe anche come arma di ricatto e autotutela verso i paesi confinanti, visto che la relazione diretta è con l’Iran. I paesi attorno non gradiscono, l’hanno mostrato. Comunque.

A mattina, naturalmente dopo la lettura approfondita dei giornali locali e non, piglio su i quattro stracci e vado a sud, verso Panjakent, attraverso, credo, il passo dei monti Shahriston, a circa duemilaottocento metri. Le montagne stanno assumendo quell’aspetto afghano completamente spoglio che un po’ di inquietudine mi dà. Oddio, a dire il vero a salire la valle è piuttosto verde, coltivata e anche con qualche acqua qua e là. Appena passato il valico, con tunnel cinese, invece tutto diventa brullo. E la strada spesso a strapiombo, non so se sia meglio vedere il guard rail quando c’è tutto rotto e spesso spezzato o piuttosto quando non c’è. Il novanta per cento del percorso.

Ogni tanto c’è un autogrill che vende prodotti tipici, albicocche essiccate, miele, nocciole, formaggio essiccato, palline di zucchero. Ma mica si ferma mai ‘sto osti di conducente e anche se gli potessi parlare non saprei come dirglielo.

A fondovalle, all’incontro con il fiume Zeravshan, pieghiamo verso est fino a Panjakent, che è un centro antico della Sogdiana lungo il fiume, di cui vorrei vedere la città antica e, soprattutto, è la base di partenza per un posto speciale. Il fiume scorre vorticoso, grigio fango, i fianchi del letto del fiume si sfanno a vista d’occhio, formando enormi calanchi.

Qui non c’è nulla che non crolli e frani, non si capisce nemmeno come stia su. Come le dolomiti, per capirci, senza i turisti e senza la dolomia. E senza, vabbè, ci siamo capiti. Per festeggiare l’arrivo mi concedo una prelibatezza locale, il plov, nel miglior posto di Panjakent a quanto mi dicono o mi par di aver capito. Ecco cos’è il plov: riso, patate, cipolle, uvetta, carne, carote gialle condito con olio di cotone. Buonissimo. Una ragazza taiwanese a fianco a me ha la maglietta All you need is plov. Me lo portano con l’immancabile zuppetta di boh, che io per paura di pollo non tocco, con fette di anguria, uva, pomodori e cipolle. Tutto gradito. Ogni tanto si trova qualche anglofono ma è raro, altrimenti come sempre le cifre su calcolatrice o telefono o per terra, il resto a gesti. Ce la si fa, comunque.

Nonostante la giornata sia stata abbastanza lunga così, devo vedere qualcosa di storico, quindi in sequenza due siti di importanza mondiale, prima la fenomenale Sarazm – prendi la marshrutka n. 8 dal centro e ci sei – e poi l’antica Panjakent. Al tramonto, la terra diventa gialla e rossa, la golden hour, tira anche un po’ di vento e si sta bene, siamo circa a mille metri. Le pitture parietali del quinto secolo dell’antica Panjakent sono notevoli e gli originali stanno, come al solito, a San Pietroburgo. Poi fecero cinquanta e cinquanta con i russi sui ritrovamenti e adesso tutto o quasi resta qui. Al museo Rudaki capisco qualcosa di più su Avicenna e l’epoca d’oro della storia tagika. Per dare un riferimento a me vagamente noto.

Chiudo al supermercato, estasiato di fronte al banco dei biscotti sfusi: e perché è comodissimo, ne si sceglie uno di questo e due di quelli, sia perché la civiltà è superiore, da noi sarebbero tutti rotti e toccacciati.


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