minidiario scritto un po’ così sulle tracce del pastore errante dell’Asia: cinque, altro passo, verso la capitale, la foto del viaggio

È il momento di scendere verso sud e andare a Dušanbe, la capitale del Tajikistan, a trovare il presidente che ho finora visto in ogni dove, grande e piccolo, sempre con le stesse tre foto scontornate con sfondi diversi a seconda, per la serie del presidente che fa o indica cose. Sugli edifici, a lato della strada, nei campi, a fianco dei monumenti. Dušanbe sta in un angolo nel fondo del Tajikistan e confina da vicino con l’Afghanistan, circa duecento chilometri da Pakistan e India, qualcosa meno dalla Cina e dal Kirghizistan. Oltre all’Uzbekistan, sempre dietro l’angolo. Un bell’accrocchio. Poi uno dice la stabilità, qua basta tirare il pallone di là che è un casino. Telobbuco.

La corriera fa il percorso inverso dell’altro ieri e poi gira verso sud e comincia a risalire le montagne. Stavolta sono completamente brulle e rocciose, un torrentone scorre sul fondo ed è chiaramente lui che ha scavato la valle. La strada corre accanto, salendo in un modo che alcuni camion di epoca sovietica rantolano non poco. Man mano che si sale, dobbiamo arrivare a tremila, le montagne si fanno aspre, spoglie e franabbili, perché non friano, che ogni tanto si vede del fumo alzarsi e sassi volare. E un paio di volte ci fermiamo che non si sa mai. Il principio del sorpasso è quello semiuniversale: sorpassare, qualsiasi linea ci sia, e se arriva qualcuno in senso contrario sfanalare che si allargherà. Se qualcun altro avesse la stessa idea in senso contrario, qualcuno chiunque esso sia ci penserà. Questo concetto occidentale dello stare in vita a tutti i costi è davvero noioso.

Invece di andare a quattromila metri per scavallare, come hanno sempre fatto tutti i minatori e viaggiatori passati da qui, da qualche anno si può prendere una galleria a poco meno di tremila scavata grazie all’aiuto iraniano che fa risparmiare parecchio. Grazie Iran, chi l’avrebbe detto? La galleria è talmente ben fatta che è chiamata ‘tunnel della morte’, sarà perché è stretta, non c’è luce, non c’è né areazione né vie di fuga né piazzuole e l’impermeabilizzazione non è riuscita granché, cioè è allagata e piove dal soffitto e ciò nonostante dentro c’è una tempesta di polvere che i fari li si vede davvero all’ultimo. A parte questo, tutto tranquillo. Che sarà mai? In realtà mi dà qualche pensiero in più lo stridore e l’odore di strino dei freni in discesa, visto che son seduto a destra e vedo il fondovalle quattrocento metri sotto di me.

Dopo una sosta in un pitorèsco bagno in cui siamo tutti fraternamente spalla a spalla, la discesa prosegue e in un paesello di cui non ricordo il nome ma che è detto ‘la perla del Tajikistan’ vado a comprare un po’ di pane – sempre buonissimo qui -, due banane e del formaggio essiccato – eccezionale, lo butti in borsa e lo consumi dopo venti giorni, da importare -, mi scappa l’occhio e vedo due madri e due figlie che parlano sedute in riva al fiume mentre gettano sassolini. Le trovo commoventi e mi capita di scattare la foto del viaggio.

Ha un che di McCurry, se mi si passa la blasfemia. Il merito è loro.

A Dušanbe, capitale più interessante di Tashkent mi pare, vado per i luoghi notevoli, l’enorme mercato principale prima di tutto.

Il regime si esprime in grandi condomini e palazzi istituzionali lungo grandi e larghi viali, monumenti celebrativi, tutto mediamente in cemento armato ricoperto di marmi. La città è davvero verde e la ricchezza nazionale, l’acqua, usata senza parsimonia. Esiste anche un enorme giardino botanico, notevole, che dà occasione agli sposi di fare foto decenti. Altro sacchettone di frutta secca, e il mio intestino comincia a chiedere pietà, e altro giro di carnazze come di consueto. Frutta e verdura buonissime, pomodori, pesche, meloni sopra tutto. Il farabutto cetriolo regna incontrastato come sempre, da qui a Portland. Nessuno può competere con lui.


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