Ancora Dušanbe, la capitale, ci sono alcune cose che vorrei visitare e che visito: la fortezza di Hisor e le sue due madrase – sono le scuole coraniche, da tempo abbandonate o adibite a negozi dall’Unione sovietica – e il museo di Storia Nazionale, in particolare l’enorne statua del Buddha dormiente di Adjina-Tepe.
La dormienza del Buddha è in realtà uno stato complicato oltre la morte, in procinto della nuova vita spirituale. O qualcosa del genere, non capisco bene questo tipo di cose. Il museo è una raccoltona di qualsiasi cosa inerente il Tajikistan e la sua storia tranne, guarda te, la guerra civile e la transizione post-sovietica. Bravo, presidente. Non male l’arte contemporanea, in cui recepiscono alcune nostre tendenze, tipo macchiaioli, oltre a quadri di dighe, invasi e montagne di cotone. E ancora meno male la parte dei doni di stato, che ipocritamente il satrapo non può tenere per sé. O sono quelli che non gli piacevano. Pugnali, diamanti, fucili, maglie da calcio, il tutto dalla combriccola più simpatica del pianeta, Putin, Erdogan e così via. A Pechino c’è un intero museo di doni di stato, mi ero molto divertito davanti al modellino Alitalia di Craxi e ai carabinieri in ceramica di Capodimonte.
La cosa più interessante è senz’altro il (la?) Kokhi Navruz, progettata per essere la più grande casa da tè dell’Asia centrale. Casa da tè è una locuzione che non spiega, in realtà è un mummullone neobabilonese di dimensioni spropositate costruito su idea del presidente per il popolo e poi invece guarda caso usata dal presidente per ricevere i suoi amiconi dittatori.
Vabbè, si è capito. Il mosaico marmoreo del presidente che prega con la sua mamma è il momento più alto della visita, superiore alla vista del più grande pennone da bandiera del mondo, costo trentadue milioni di euro, con bandiera di sessanta metri di lunghezza. Considerato che lo stipendio di un insegnante è circa centocinquanta dollari al mese, due pensierini vengono.
Bene, dopo aver fatto scorta di pane, formaggio essiccato, acqua e banane, mi dirigo alla frontiera ovest per tornare in Uzbekistan. Dopo un’oretta di corriera, di nuovo piglio su gli stracci e attraverso a piedi, come quasi tutti. Stavolta, sia perché in uscita sia perché essendo vicina alla capitale è più informatizzata, ehm, diciamo che funziona, il processo è più semplice dell’altra volta. Le donne in coda, giovani e vecchie, si sentono autorizzate a superarmi nella fila informe, immagino perché per me la procedura è più lunga, e gli uomini a passare davanti a tutti. Dopo essermi messo di mezzo, dopo aver subito gli sguardi furbi delle donne che mi rassicurano con le mani e appena possono mi passano avanti, a un certo punto sporcono ad alta voce, tutto in italiano, non mi piglio nemmeno la briga di tradurre. Cala il silenzio e per qualche minuto, qualche, l’ordine dopo di me è rispettato per un po’. Mentre aspetto il mio turno nella terra di nessuno, incrocio in senso contrario: una donna con carretto pieno di sole bibite, immagino siano varietà che in Tajikistan non esistono; un mio coetaneo che spinge un carretto con sopra seduta un’anziana signora, immagino la madre, lo aiuto ad aprire la sbarra e mi dà uno di quei cenni del capo dritti negli occhi che dicono tutto, sono ringraziamento profondo e consapevole della comune umanità; giovani donne chiacchierine con sacchetti vari; un uomo che il carro lo tira mentre i numerosi figli spingono, sopra ci sono la madre e molto di quanto possiedono, immagino.
Scendo verso sud, a Termez città militare, l’armata rossa entrava da lì in Afghanistan, separato solo da un fiume. Vale la pena segnalare che da lì è più vicina l’India che la capitale dell’Uzbekistan, Tashkent. Per dire delle influenze e delle distanze.
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