Termez o Termiz è la città più meridionale dell’Uzbekistan ed è attraversata dall’Amu Darya, l’altro fiumone dell’Asia – duemilacinquecento chilometri, per capirci, quattro Po – che fa da confine con l’Afghanistan. Infatti, basterebbe attraversare il ponte dell’Amicizia – classico senso dell’umorismo sovietico – per andare dall’Uzbekistan all’Afghanistan e viceversa. Il condizionale è perché mica è così semplice, ora che di là sono tornati i talebani per la seconda volta. A dirla tutta, il commercio vince: gli afghani possono arrivare a Termez e starci fino a dieci giorni senza limitazioni pur non potendo andare in altri luoghi nel paese – leggi: comprate e tornate a casa -, mentre chiunque altro per andare in Afghanistan deve avere un difficilissimo visto.
Io questo confine lo voglio vedere e, quindi, piglio un taxi che mi porti fin dove si può. Si forma subito una piccola cordata di gente che vorrebbe andare a vedere, andiamo. Sono tassativi: niente foto in nessun caso. Già le frontiere sono sensibili in generale, figuriamoci qui. Ultima foto, a vista ponte da lontano.
Poi si prosegue a vista, scorgo la solita lunga fila di tir fermi in attesa di chissà che e in fondo la barriera, presidiata da uomini armati eon i cani. Il tassista scrive su gugol translate che non si può andare oltre, traduce e me lo mostra, ben comprendo, non è nemmeno il caso di fermarsi troppo a contemplare.
La zona di Termez è ricca di siti archeologici, testimonianze di vita antichissima nella regione – e in questo l’Afghanistan dovrebbe essere notevole, per quel che forse resta e non hanno distrutto o venduto -, tombe, insediamenti, mausolei, caravanserragli e stupa. Proprio per vedere uno stupa abbandonato ho l’idea bellissima di camminare per alcuni chilometri sotto il sole, prima in landa desertica e poi in un campo di cotone. Ovviamente alle due del pomeriggio.
Bravo me. Per vederne un altro, circondato da una madrasa nel deserto, salgo su una collina da cui non solo si vede il confine afghano, triplo reticolato, ma la collina è piena di bossoli, spolette, cartucce sovietiche, trattandosi evidentemente di una postazione di tiro durante l’invasione dell’Afghanistan.
I luoghi nel deserto sono di grande fascino e le attestazioni della vita risalgono alla preistoria, il che mi dice molte cose – non tutte buone – sulle capacità di adattamento della nostra specie, anche in chiave futura.
Le file di mattoni cotti al sole, in pratica basta prendere la terra, bagnarla, mescolarla a un po’ di paglia per renderla più traspirante, metterla in casseformi e lasciarla asciugare al sole, presupporrebbero l’esistenza di qualcuno, cosa che non è, non vedo alcuno per chilometri. Mah, solito mistero delle fermate di corriera nel deserto: da dove verranno? Dove andranno?
Domani a Bukhara.
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