Da Termez a Bukhara sono quattrocento e rotti chilometri che si traducono in sette ore e rotti di sospensioni nella schiena e in sorpassi semisuicidi. Da sud, ovvero da Mordor, sale il vento carico di sabbia e rende il cielo giallo e polveroso, maledetti talebani, anche questa. A un certo punto facciamo sosta in un paesello su un fiumicello stento con al centro un enorme platano quasi millenario che copre, realisticamente e metaforicamente, con la sua chioma tutto il villaggio. Faccio rifornimento di formaggio essiccato, disbrigo le mie faccende fisiologiche in un posto che raccomando – il trucco è avere il coraggio di fare due respiri a pieni polmoni, poi non si sente più – e mangio la frittellona appena fritta più buona di sempre.
Grazie, frittellaia. Superato un passo desertico la strada si allarga e si capisce che in un tempo indefinibile diverrà una strada ad alta percorrenza. Al momento sono gran buchi e ruspe cinesi. A tardo pomeriggio finalmente Bukhara. La perla dell’Asia centrale, la città santa, la nobile. Ed effettivamente.
Per la prima volta da dieci giorni vedo un turista, intendo con sandali e cappello e maglietta troppo stretta. Ed è pure italiano. Urrà. E poi ne vedo due, otto, mille. Chiaro, il governo uzbeko sta spingendo molto sul turismo e il giro ormai classico Khiva, Bukhara, Samarcanda, Tashkent è molto gettonato, voli diretti da Milano. A Bukhara vedo riapparire le carte di credito, dimenticate negli ultimi giorni, le linee telefoniche, l’inglese e, spesso, italiano e francese. E i Ricchi e poveri.
Detto questo, la città è davvero favolosa. In senso letterale, favola. Nel corso dei due rinascimenti del mondo islamico, ottavo-nono e quattordicesimo secolo, Bukhara fu il centro del sapere dell’Asia centrale, con ventimila studenti e docenti del calibro di Avicenna, anche lui di qui. Samarcanda, certo, per i commerci e le vie di comunicazione, Bukhara per scienza, medicina, filosofia, astronomia, religione, manifatture tra cui i famosi tappeti e la comunità ebraica, si dice la più antica del mondo. Sì, lo so che lo dicono anche a Roma ma qui parliamo del quinto secolo avanti cristo, mica dopo la diaspora. L’incredibile minareto in mattoni cotti che domina la piazza con le due enormi madrase colpisce davvero l’animo, e dovette colpire anche quello di Gengis Khan, che stranamente lo risparmiò. E la diretta discendenza dei minareti dal faro di Alessandria, questa cosa l’ho imparata in Tunisia, è qui abbastanza evidente.
E i mausolei, le moschee, la fortezza, il quartiere ebraico, le tombe dei santi, le vasche d’acqua, le mura e le porte, i mercati sotto le cupole, insomma la città è davvero molto affascinante nonostante i banchetti mercatini e gli italiani.
Questo mausoleo, bellissimo, armonico e proporzionato, sembra il deposito di Paperone. A sera mentre sto bevendo una birretta a fianco della grande vasca in centro alla città – sì, ci sono anche le birrette – e mangiandoci insieme semi di albicocca tostati – una grande scoperta, mille volte meglio delle arachidi -, faccio due chiacchiere con Rudi, lo chiamerò così, un tedesco residente a Cuba. Dovendo ciclicamente uscire per ragioni di visto, stavolta ha ben pensato di volare a Pechino, prendere un’auto, scendere lungo una delle vie della seta fino a qui per poi proseguire per il Pakistan e l’India. Questo per dire la gente che c’è in giro, che meraviglia. Mi deprime l’idea di dover tornare a sentire le quotidiane fregnacce del vicepresidente del consiglio, che avremo mai fatto di così male?
Bella la madrasina dei birilli, eh? Starei sempre in giro, sempre un angolo da svoltare.
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