Non è poi così lontana Samarcanda / corri cavallo, corri di là, è vero, non è poi così lontana ma Samarcanda è un’idea, un posto là, dove tutte le strade su incontrano, dove le genti si scambiano e mescolano, è talmente in là nell’immaginazione, nello spazio e nel tempo, che puoi scappare lì per provare a sfuggire la morte. Come scrive Franco Cardini: “Samarcanda, anche perché fu a lungo una gemma incastonata in quella preziosa, polverosa collana dei sentieri attorcigliati che di oasi in oasi e di karavansaray in karavansaray ti porta lontano, e basta che tu la nomini socchiudendo gli occhi e sei su un tappeto magico”. Basta nominarla.
Dare un volto alle cose, e io sto per farlo arrivando a Samarcanda, è pericoloso, un’arma a doppio taglio: dare soddisfazione a un desiderio, arrivare finalmente a vedere e insieme, però, smarrire l’immaginazione, la fantasia, sostituirla con immagini concrete, fatte di mattoni, con la pesantezza del caso. Certo, si può fantasticare comunque sulla Samarcanda del passato, Afrasyab, Marakanda, poi Samarcanda, ma l’incantesimo è finito. Diventa un’altra cosa, un’altra categoria del pensiero.
Tamerlano, stessa cosa. Fin da Marlowe, il suo Tamerlano, fantasticare sull’immenso impero che andava da Costantinopoli a Mosca a Delhi è cosa facile, e quando morì stava conducendo la campagna di invasione della Cina, figurarsi. Anzi, non Tamerlano, che mette l’accento sulla sua zoppìa, ma Amir Timur, in cui il primo termine è il titolo onorifico, emiro degli emiri, principe dei principi, e il secondo il nome che diede inizio alla dinastia dei Timuridi che, per dire, costruirono il Taj Mahal in India e durarono fino agli inglesi nell’Ottocento. Amir Timur, dicevo, anch’egli qui diventa presenza reale da fantasia sfrenata, il suo mausoleo e la sua tomba sono lì da vedere, persino il suo corpo è stato analizzato e ha confermato quanto sapevamo di lui.
Non solo mercati e scambi e carovane e caravanserragli ma università medievali, madrase, conoscenza e apertura. Come quella di Ulug’ Begh, nipote di Timur, astronomo e scienziato che documentò nel quindicesimo secolo oltre mille stelle e relative orbite con precisione contemporanea. Le tracce del suo osservatorio, simile a quello di Copernico a Torùn o quello di Tycho Brahe a Copenaghen, sono impressionanti, resti della furia fondamentalista che, ancora, ci costringe al passato e tiene a freno la nostra capacità di immaginare.
Da Bukhara a Samarcanda prendo il treno e, siccome non mi nego nulla, ad alta velocità. Un Frecciarossa, ci assomiglia, velocità paragonabile. A bordo offrono, mai visto, oltre a dell’inedito gelato – coppetta con palline esattamente come dal gelataio -, mojito alla loro maniera ma pur sempre mojito, macedonia.
Nel deserto attraversiamo alcune zone industriali, gas e miniere, terribili e solitarie, immagino la vita qui. Poi deserto stepposo, alla TV nel treno lussuoso assisto a uno sceneggiato in cui una donna ascolta un lunghissimo concione da un dottore e non pare contenta, poi esce e dà una testata fortissima a un’altra donna che incontra per strada. Quando il treno incontra il fiume Zaravshan capisco che cominciamo a esserci. Ehi, io ti ho già visto, fiume. Ed eccola, Samarcanda, di nuovo, con la sua stazione sovietica.
Sono alla fine del viaggio, e che fine, doveva essere così. Ora c’è lei, leggendaria come Baghdad, Damasco, Persepoli, vediamo dunque com’è questa idea fatta realtà.
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