Ineccepibile la descrizione di Marco Polo: «Samarcan è una nobile cittade, e sonvi cristiani e saracini». Nemmeno una parola falsa o imprecisa, non lo si becca in castagna, Polo. Sono quasi tutte così le sue descrizioni di città e luoghi, tipo (parafrasi): «e vi eran cose molto belle» e son la minoranza del Milione, che si dedica invece lungamente a Kublai Khan e alle vicende dell’impero mongolo, mica la fa lunga sui posti, così usava. Ma chi non l’ha letto e lo cita pensa sia così. A Samarcanda qualcosina in più c’è ma per gran parte arrivò dopo Polo, quindi assolto con beneficio. Perché Alessandro Magno disse invece: «Tutto quello che ho udito di Marakanda è vero, tranne il fatto che è più bella di quanto immaginassi» e oltre a essere ineccepibile anche questo, è un accenno che rimanda immediatamente alla storia millenaria della città, meravigliosa fin dalle origini. Afrasyab, Marakanda, poi Samarcanda, lo dicevo ieri, sottintendendo la prima città, capitale della satrapia della Sogdiana sotto gli Achemenidi di Persia, poi fiorita ancor di più sotto i Sasanidi per poi divenire una delle città più ricche di tutto il mondo islamico sotto arabi, persiani e turchi. Quando Polo la vide, Samarcanda aveva subito le due devastanti invasioni mongole che la ridussero al lumicino. Fu poco dopo che Tamerlano, Amir Timur, la fece capitale dell’impero timuride, immenso territorio che andava da Costantinopoli a Mosca a Delhi, e suo nipote Uluğ Bek proseguì l’opera rendendola talmente grandiosa da togliere il fiato ancora oggi. Che bravo sono stato quest’anno, ho visto Tebe, Cartagine e Samarcanda, bel malloppo di città leggendarie, mi emoziona ripensarci.
Vabbè, comunque facile parlar bene di Samarcanda. «Anche tu? Vanno tutti in Uzbekistan quest’estate» mi aveva detto un amico prima di partire e io mi ero sorpreso perché non so mai cosa facciano questi tutti e poi, ora, devo dire che aveva ragione: tra Bukhara e Samarcanda questi tutti li ho visti proprio, insieme. Il fatto è che lo stato uzbeko, nella persona del suo poco luminoso presidente Mirziyoyev, successore del cane Karimov, ha adottato negli ultimi anni una robusta politica di apertura, cercando di attrarre investimenti e turismo nel paese e, in effetti, i risultati si vedono. Certo, il giro canonico Khiva, Bukhara, Samarcanda, Tashkent, con volo diretto da Milano, è di grande golosità, tre città su quattro contengono monumenti di straordinaria bellezza, e i nostri turisti europei rispondono in massa, ma è anche inevitabilmente molto addomesticato. Si può alloggiare in alberghi di tipo occidentale, mangiare come a casa facendosi togliere i sapori molesti, girare sicuri e spavaldi, spendere come dei ricconi in Florida, sbattersene delle sensibilità locali e girare in ciabatte e braghini.
Ora: se questo servisse a dare una svolta ai diritti sociali e politici degli uzbeki allora sottoscriverei subito e, forse, sul lungo periodo sarà pure così. Pasolinianamente massificando tutto ma tant’è, il mondo pare oggi abbia un’unica regola e nessun modo alternativo. Se, invece, come è ora, si traduce semplicemente nell’invasione di una razza padrona cui i locali servilmente in cambio di valuta con alto potere d’acquisto vendono luoghi ed esperienze autentiche, allora faccio più fatica. E il calzolaio fa l’autista, il contadino spilla birre e la maestra col velo vende tazze alle turiste in costume sognando chissà cosa ma nel frattempo si guadagna di più. Il tutto sempre autentico, però. Per carità, le cose viste son talmente belle che non mi sentirei di scoraggiare nessuno, anzi, ma sono contento di aver messo al centro del mio viaggio il Tajikistan e l’Uzbekistan remoto del sud. E di non aver incontrato quasi nessun turista, men che meno italiano, che sopporto meno. Mica perché italiano, nonostante una certa sguaiatezza esibita nei costumi nazionali, più che altro perché capisco cosa dicono, è quello il problema. E comunque quando vedi apparire il tatuaggetto fatto a cazzo, sicuro son loro. Ma io mica voglio parlare di questo, fermati.
Tutti ‘sti presidenti, il tajiko Rahmon compreso, sono vecchioni provenienti dall’URSS, delfini di qualche satrapo allevato a pane raffermo e KGB e a loro volta despoti appassionati di potere e familisti orrendi. Certo, con loro l’argine all’islamismo integralista c’è ed è fermo, pur con tutte le storture (in Tajikistan, per dire, sono proibite le barbe) e quando essi soccomberanno al tempo e poi, spero alla storia, non è detto che andrà meglio. Anzi, potrebbe esserci la deriva fanaticheggiante, Iran e Afghanistan sono qui da vedere. Non c’è come proibire una cosa per allevare devoti.
Dei periodi di Samarcanda, dalla primordiale a quella odierna, rimangono svariate tracce. Notevole la collina della remota Afrasyab, con le sue stanze affrescate direttamente sul fango e la paglia, così simile alla vicina ma tajika Penjakent. Senz’altro la parte più significativa della città è la parte timuride, ovvero quella costruita e disposta da Tamerlano e discendenti, tra cui senz’altro il Registan, l’enorme famosa piazza sulla quale aggettano tre madrase meravigliose che ricordano un passato di sapienza e istruzione, e qualche esecuzione qua e là, vabbè, poi la moschea più grande dell’Asia centrale, la necropoli timuride, una successione strepitosa di mausolei uno più bello dell’altro e l’osservatorio astronomico di Uluğ Bek. Molte altre cose poi, il gran bazar sovieticheggiante, il quartiere cinese Shanghai. Tra l’altro in questi giorni c’è il festival di musica folk uzbeka, un grande appuntamento che ferma il centro città per alcuni giorni. In rete si trovano filmati delle edizioni passate, alcune cose meravigliose, altre terribili e dico solo Albano che bacia la terra uzbeka in favore di presidente cane.
Per me ora Samarcanda vuol dire anche aeroporto, cioè la fine del viaggio, breve tappa a Istanbul. Giusto averla piazzata alla fine, scelta saggia, partire sempre dal difficile. Che dire, ancora? Viaggio complesso, inventarsi e organizzare gli spostamenti non è sempre stato semplice, sarebbero serviti molti giorni in più, attraversare paesi come il Tajikistan richiede spesso di trovare il modo per arrivare da un punto all’altro e serve tempo per parlare, chiedere, cercare. Mi servirebbe, quindi, una vacanza, ora. Aver messo il naso in Asia centrale mi rende contento, volevo cominciare a capire. A Dušanbe scrivevo di trovarmi «nel fondo del Tajikistan che confina da vicino con l’Afghanistan, circa duecento chilometri da Pakistan e India, qualcosa meno dalla Cina e dal Kirghizistan. Oltre all’Uzbekistan, sempre dietro l’angolo» ed era vero, a Termez anche peggio, di fatto è lì che da secoli la civiltà umana progredisce e regredisce. Certo, anche noi in Europa abbiamo avuto i nostri bei (e meno) momenti, Grecia, impero romano, illuminismo, nazismo, ma chi suggerisce di guardare l’Europa come un’estrema propaggine del continente asiatico non sbaglia e ci suggerisce di aprire la mente e lo sguardo. Adesso in quest’ottica punto Iran, Armenia, Georgia e Azerbaigian.
E l’augurio iniziale? Molte persone care mi hanno augurato di tornare sereno e di trovare tranquillità e soddisfazione e io sono loro grato per questo augurio premuroso. Ma non è il tipo di viaggio che serve a questo né, probabilmente, io cerco tranquillità e soddisfazione, andando a sbirciare paesi complessi e non addomesticati. La mia amica A. mi aveva augurato di tornare «appagato», ed è stato l’augurio migliore, anche se pure in questo caso non è la conseguenza possibile delle intenzioni di viaggio. Capire di più è quello che voglio, non divertirmi o svagarmi, non vado in vacanza: vado in capienza, al contrario, in riempimento. E torno più consapevole, proiettato nel mondo, più concentrato.
Il che vuol dire che non solo non sono più sereno e accomodante ma, anzi, sopporto decisamente meno le meschinerie e le piccolezze: dopo aver diviso del formaggio essiccato a quattromila metri contemplando laghi glaciali e osservato l’immensità della storia da un monastero nel deserto, è ovvio che tollero ancor meno le sciocchezze, le miserie, le lagne, chi non parla con onestà, chi non agisce seguendo giustizia. Vedo dunque nubi all’orizzonte.
Bah, il fatto positivo è che la Nera Signora non c’era, o non era a Samarcanda che attendeva me, quindi ancora in pista, bucato fatto, sono pronto a ripartire. Chissà, magari pure a breve. Grazie a chi ha seguito.
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Letto tutto con piacere. Imparato anche. Il discorso finale mi ha commosso perchè mi è sembrato di ascoltare Federico. Dico a te quello che direi a lui: tutto vero , sacrosanto, ma non è un eccesso di “aristocrazia della cultura”? Ma forse esagero…