Mesi fa, mentre leggevo eccitato del nuovo tour dei Jet e del singolo e del disco, mi interrogavo su quale data sarebbe stata più piacevole per tornare a sentirli: le comode Milano e Roma? Bristol? Londra? Belfast, Glasgow, Manchester, Nottingham? Posti in cui sono già stato, a Nottingham ci andrò a dicembre a sentire Paul Heaton – caravanovlooov, per chi sa -, allora opto per l’unica restante: Birmingham. Me l’ero promesso a novembre dell’anno scorso, «Birmingham, un’altra volta». Che poi, se averli sentiti a Manchester nel 2018 aveva completamente senso, Birmingham non è da meno, essendo la città di Spencer Davis Group, Traffic, The Move, The Moody Blues, Judas Priest e Black Sabbath, Robert Plant e John Bonham, ci siamo capiti, Martin Barre, Electric Light Orchestra e Wizzard, Joan Armatrading, Duran Duran, Fine Young Cannibals e Dexys Midnight Runners, grandi, Charlatans, Ocean Colour Scene, Editors. Sì, li volevo dire quasi tutti. E bisognerebbe indagare meglio la relazione tra musica e città industriali, forse evasione?
Poi me ne dimentico.
Poi passano mesi, come accade di solito, viene ottobre e il mio calendario mi ricorda l’appuntamento. Beh, pronti. Nonostante un micidiale ritardo dovuto alle fottute compagnie low cost che non sono più low cost ma che mantengono il servizio low, sei ore e un vago cidispiace molto poco sentito, arrivo a Birmingham e mi preparo all’esplorazione, osservando a tarda notte un bel mural di Peaky Blinders con la facciona di Oppenheimer. Fortuna che mi attende una full english breakfast come si deve davanti alla New Street Station, un millecinquecento calorie per affrontare la giornata con animo sbarazzino, bacon spesso del nord, sausages, fagioli, omelette, fette di pane cotte nel burro e pomodoro e funghetti che danno l’illusione della verdura. Ripetere poi per altri due giorni consecutivi, fatto, anche in caso di allucinazioni e tachicardia. È che mi dicono: «Hi, goodtoseeya» con tono caloroso già dalla prima volta e niente, io rapito da tanta cordialità sconosciuta nel nordest-produttivo-locomotiva-deuropa-seee e quindi poi torno riconoscente.
Va bene, ora le calorie c’è da consumarle. E cosa di meglio del vero motivo per cui sono qui – i concerti sono l’innesco -, ovvero la parte industriale di Birmingham, soprattutto i canali? La zona delle midlands e il nord, quindi Liverpool, Manchester, Birmingham, Leeds, Sheffield furono i centri della rivoluzione industriale, le macchine utensili e le macchine motrici, le industrie tessili e l’industria pesante, metallurgica e meccanica, il carbone, fino a Engels e poi Marx e l’impero e insomma, mica è una guida questa e non devo fare tutto io, qui. Ma il carbone e poi le merci e le materie prime bisognava trasportarle e così la parte centronord del paese fu disseminata di una formidabile rete di canali navigabili che esiste tutt’ora, dal Birmingham Canal, il mio obbiettivo, che si immette e riceve, per dirne alcuni, da Coventry Canal, Grand Union Canal, Staffordshire e Worcestershire Canal, Stourbridge Canal, Worcester Canal e ne ho detti un po’. Il mio personale filo conduttore, quindi, inaugurato a Manchester e la sua poderosa industria, proseguito a Liverpool e i canali artificiali che le collegano, prosegue qui, a Birmingham.
La camminata mattutina lungo i canali e le diramazioni e le isole è davvero strepitosa, ha anche smesso di piovere, si affaccia il sole e non c’è quasi nessuno, io adeguo il respiro al passo, sgombro la mia mente affollata, mi godo la brezza, osservo e ascolto musica, raccolgo stimoli e prendo le strade che più mi ispirano.
Se non è bello questo, non so. Passo sotto al Black Sabbath bridge, sì è per quello, e rientro nella parte della città fatta di strade e di zone meno perfette, la famosa biblioteca postmoderna, la piccola cattedrale, la blobitecture dei magazzini Selfridges – a proposito: c’è una bella serie su questo -, il campus universitario, enorme e verde e accogliente, i centri commerciali del centro a ridosso delle stazioni nel pezzo più disastrato del centro città. Come tutte le città industriali ottocentesche, oggi è piuttosto disarticolata, gli anni sessanta e ottanta hanno rimpiazzato l’esistente senza scrupolo né decenza, i novanta e gli zero hanno scavato solchi e fossati nel tessuto urbano, grattacieli fatti per non durare, oggi un po’ e un po’, qualcosa si recupera. I servizi hanno rimpiazzato le armi, le auto, i gioielli,
Qualcosa però resta e tra ciò una magnifica salona prima biblioteca nel 1862, poi banca e poi, adesso, pub con annesso teatro e, il pub, cucina aperta da mezzogiorno alle nove di sera ininterrottamente. Sebbene l’atto di mangiare sia ampiamente sopravvalutato, poterlo fare a qualsiasi ora ha un che di scandalosamente appropriato, alla faccia dei rigorosi riti mediterranei. E siccome posti così bisogna onorarli e contemplarli con calma e posa, una birra e una pie alle cinque del pomeriggio non me le toglie proprio nessuno.
Anche perché io tra poco scendo in pista, ho il concerto, ho la semirissa con gli amici inglesi, devo essere pronto. Che bella abitudine hanno, tra l’altro, di bere le cose fino a un terzo e poi tirare contenuto e bicchiere dove capita, proprio bella. Ma è così, è un concerto rock, questa è l’attitudine, come dicono loro. Quindi, adeguarsi, dentro nella bolgia sapendo che, comunque, alla fine sono leali, e un sorriso e un abbraccio alla fine degli urti, degli spintoni, dei bicchieri volanti e delle grida, arriva sempre senza bisogno di metter mano al coltello come invece faremmo noi italiani. Oh, look what you’ve done / You’ve made a fool of everyone / Oh, well, it seems like such fun / Until you lose what you had won. E poi questi hanno tutti la mia età, sopra e sotto il palco, lo scontro è pari. Fatevi avanti.