Prima, una nota importante: il Signore della Scienza abbia pietà di me per quanto dirò da qui in poi. Son profano.
Il 30 dicembre 1924, Edwin Hubble, astronomo e astrofisico, dopo due anni di osservazioni con il telescopio Hooker da 100 pollici, allora il più potente del mondo, nell’osservatorio di Mount Wilson a Pasadena, annunciò che la stella V1, nella Galassia di Andromeda, non apparteneva alla nostra galassia. Infatti, ne aveva determinato la distanza con sufficiente precisione per poter dire con certezza che le cosiddette nebulose a spirale erano molto più lontane di quanto si credesse. Più lontane di quanto credesse il suo nemico scientifico (scherzo) Harlow Shapley che sosteneva invece la tesi avversa.
Non paia una sciocchezza: questa osservazione spostava – e di molto – i limiti di osservabilità dell’universo e le sue dimensioni, aprendo – letteralmente – spazi sconfinati attorno a noi.
Cinque anni più tardi, Hubble notò che la frequenza della luce osservata da alcune stelle era più bassa rispetto a quando la luce era stata emessa dalle stelle stesse. Ciò tipicamente accade quando l’osservatore si allontana dalla sorgente di luce (il cosiddetto effetto redshift). Hubble comprese, inoltre, che esisteva una relazione lineare tra il redshift della luce emessa dalle galassie e la loro distanza: più il primo aumenta e più la distanza cresce. La conseguenza di questo? Una roba forte: le galassie si allontanano da noi. E noi da loro. E l’universo si espande. Bum!
Dopo lo sconcerto, ecco la Legge di Hubble. Ma era un Bum! davvero grosso, che apriva enormi, nuove sconvolgenti frontiere della cosmologia, della fisica e della filosofia. Due conseguenze derivanti dalle osservazioni di Hubble? Bum! uno: esse postulavano l’esistenza del Big Bang. Bum! Bum! doppio e appropriato. Bum! due: anche noi ci allontaniamo e, attenzione che scoppia la testa, non siamo affatto in una posizione privilegiata nel cosmo, siamo – anzi! – in una semi-sperduta periferia. La banlieue dello spazio.
Quando negli anni Settanta si fece largo l’idea di piazzare un telescopione nello spazio – ottima idea, per evitare inquinamenti vari anche di tipo luminoso – venne del tutto naturale intitolarlo a Edwin Hubble. L’HST, lanciato nel 1990 nell’orbita bassa dell’atmosfera a 560 km di altezza, è un cannolone di due metri e mezzo di diametro, tredici metri di lunghezza e undici tonnellate di tenerezza che galleggiano nello spazio, e in ventisei anni di onoratissima carriera ha scattato circa ottocentomila fotografie ad altissima risoluzione. Più o meno le foto che io ho scattato a New York l’ultima volta.
Grazie a Hubble, per dirne una, è stata fotografata la galassia più lontana attualmente conosciuta, la Z8 GND 5296, alla distanza ipercalifragisiderale di 13,1 miliardi di anni luce dalla Terra. Se conoscete qualche numero relativo al Big Bang, la distanza vi avrà fatto sobbalzare.
Ed eccomi, finalmente, allo scopo di questo post: la NASA pubblica con grande bravura e generosità molte delle fotografie scattate da Hubble, almeno le più comprensibili al grande pubblico-me. Eccole. La delizia è che sono ad alta risoluzione per davvero, nel senso che se desiderate una bella TIFF da stampare per appendere in salotto una bella composizione tre-metri-per-due, allora basta cliccare qui, per esempio (occhio che son 66 megabombi).
Tra le foto strepitose, una che mi colpisce molto – non sono il solo – è una guglia stellare nella nebulosa dell’Aquila, questo pippiulone qui sotto:
La foto è disponibile anche qui, un altro bel sito di immagini di Hubble. A settemila anni luce di distanza da noi, questa è la colonna V, soprannominata “la Guglia” (The Spire), che si trova a nordest rispetto ai cosiddetti “Pilastri della Creazione”: questi sono delle colonne di gas interstellare e polveri con una massa totale stimata pari a 200 masse solari, cioè quattrocento quintilioni di chilogrammi che-faccio-lascio?, che uno pensa subito ai bastioni di Orione e alle porte di Tannhäuser.
Una roba così.
Ora, siamo onesti: starsene a casa propria, seduti davanti al pc come voi ora e me prima, al caldino, e guardarsi le fotografie vere-vere che un occhione spaziale ha scattato e sta scattando per noi là fuori, nello spazio un po’ profondo, non è una tra le cose più emozionanti del nostro tempo? Io penso di sì. Galilei o Brahe avrebbero probabilmente ucciso per vedere anche solo una delle fotografie tra quelle che possiamo vedere noi, non appena gli avessimo spiegato cosa sia una fotografia.
Per cui, detto questo, fatte le somme e sottratti gli svantaggi, io sono contento di avere questa favolosa opportunità.