In Italia, fortunati noi, abbiamo avuto e abbiamo grandi linguisti e studiosi di grammatica e retorica, basterebbe citare Luca Serianni e Bice Mortara Garavelli.
Perché l’italiano è una lingua ricca e bizzarra, piena di sfumature e sottigliezze che la rendono bellissima e vivace e, per meglio capirla (e usarla), servono gli studiosi, quelli bravi. Tra quelli bravi davvero e con meno di cinquant’anni, uno su tutti: Andrea De Benedetti. Mai pedante, spiritoso e brillante, uno che la lingua la conosce per davvero, tanto era divertente e interessante in Val più la pratica. Piccola grammatica immorale della lingua italiana quanto si è confermato in La situazione è grammatica. Perché facciamo errori. Perché è normale farli.
Tra le tante informazioni utili e curiose del libro, vorrei riportare qui – lo so che non dovrei, sarebbe anche vietato ma la voglia di condividere tanta bellezza è troppo forte per me (chiedo quindi scusa ad ADB) – un pezzo dell’ultimo capitolo del libro, «Consigli non richiesti»: dodici suggerimenti che De Benedetti lascia in conclusione e che andrebbero, dico io, imparati a memoria.
Eccoli qua e, visto che tanto sto trasgredendo, completerò lo scempio, spezzandoli qua e là per farli diventare più evidenti:
Diffida di quelli che scrivono mail del tipo nel rispondere alla Sua richiesta del 23 ottobre xxxx, mi pregio di informarLa che l’ordine da Lei effettuato Le sarà recapitato… perché chi si rivolge al prossimo ergendogli un piedistallo di lettere cubitali non lo fa quasi mai per educazione ma perché è un servo.
Diffida in generale di chi usa le lettere grandi per farsi sentire, di chi gonfia i font del computer col Viagra delle maiuscole per compensare un’evidente impotenza dialettica, di chi, incapace di far valere le proprie ragioni in una discussione vis-à-vis, strilla giudizi e sentenze barricandosi dietro cataste di lettere enormi e spigolose.
Compiangi chi si presenta o si firma Tarantini Roberto o Cazzaniga Jessica, perché senza saperlo sta rinunciando a un pezzo della sua identità, degradandosi a voce di elenco telefonico, a numero di registro di classe, a ennesimo socio di quel club dei vinti, anonimi e sottomessi di cui il Fantozzi rag. Ugo è ancora oggi l’insuperato prototipo.
Sospetta di chi seleziona parole già accoppiate, di chi costruisce le frasi col libretto di montaggio sempre sotto il naso, di chi non riesce neppure a concepire una tegola che non sia brutta, un valore che non sia aggiunto, un delitto che non sia efferato, un suono (anzi suon) che non sia quello di gol, un’iniezione che non sia di fiducia, una tragedia che non sia della follia, e non immagina quanto possa essere bello e gratificante far da sensale a nomi e aggettivi che, se solo qualcuno si prendesse la briga di mettere in contatto e far conoscere, scoprirebbero di stare insieme molto meglio di quei matrimoni di parole talmente logori da rischiare di culminare, appunto, in «efferati delitti» o in una «tragedia della follia».
Guardati da quelli che mettono ogni cosa tra virgolette – le parole che scrivono e quelle che dicono – magari accompagnando il tutto col gesto molto americano di indice e medio che si abbassano insieme o avvisando in anticipo che quanto stanno per dire è da intendere, appunto, «tra virgolette». Guardatene, perché non sanno quello che dicono, oppure non sanno dirlo, oppure ancora lo sanno benissimo ma non vogliono assumersene alcuna responsabilità, come se le virgolette, piú che a segnalare usi figurati di un termine, servissero prima di tutto a prendere le distanze dalla propria coscienza.
Fai attenzione, specie quando scrivi, a non usare i tempi verbali in maniera promiscua, a non abbandonare il presente se hai cominciato a raccontare una storia al presente, a non tradire il passato remoto se all’inizio della narrazione hai scelto il passato remoto. Il fatto che l’italiano disponga di una vasta gamma di tempi verbali per le narrazioni non significa che li si possa usare indifferentemente: ciascuno ha una sua funzione specifica (il passato prossimo riduce le distanze, il passato remoto le dilata, il presente storico ha un effetto di presa diretta, il trapassato prossimo e il trapassato remoto danno profondità al racconto permettendo di sovrapporre diversi piani temporali), ma se si tratta semplicemente di riportare eventi in successione basta scegliere quello che ci sembra piú adatto al tipo di racconto.
Controlla sempre su un dizionario come si scrivono – e cosa significano – le parole che non usi abitualmente, perché potrebbe darsi che tu le scriva o le usi nel modo sbagliato: la storia recente della lingua italiana è piena di voci che hanno cambiato radicalmente volto (da irruente a irruento, da reboante a roboante, da succubo a succube) o ruolo (defatigante da «faticoso» a «rilassante», affatto da «del tutto» a «per niente», paventare da «temere» a «proporre») senza far troppo rumore, ma se sei il pioniere della novità e non sei uno che fa tendenza, rischi di finire sbertucciato su Facebook o Instagram come quelli che scrivono entusiasto, apprendisto, pultroppo, albitro o propio.
Qualche volta prova poi a consultare una grammatica, che resta il miglior gps per orientarsi nella propria lingua. E ogni tanto ricordati di scaricare gli aggiornamenti, perché da una volta all’altra potresti scoprire che sono state aperte nuove strade che non conoscevi.
Non fidarti dei correttori automatici, che sarebbero anche utili per rimediare agli sbagli, se non avessero la tendenza a sostituirli con degli errori.
Sorridi di quelli che dicono «un attimino di pazienza», «un attimino di attenzione», «sei un attimino nervoso», perché, a parte il fatto che l’attimo servirebbe a quantificare il tempo e non le cose, un attimo rappresenta già un’unità di misura abbastanza piccola perché la si debba ulteriormente frazionare in attimini.
In generale, evita le semplificazioni, le scorciatoie. Commettere errori non è una colpa, ma lo diventa se non fai nulla per evitarli, se rinunci in partenza a vigilare su quello che dici e come lo dici, se l’errore non è un atto in qualche modo creativo ma è il frutto guasto di pigrizia e conformismo.
E, infine:
Ricorda, infine, che l’italiano è un bene comune, come l’acqua, l’aria, la terra, il verde. Il suo uso è libero e gratuito ma comporta delle responsabilità. Non seminare cacche e immondizie in giro resta il modo migliore per evitare, un giorno, di calpestare quelle altrui.
Grazie, De Benedetti. Illuminante, anche stavolta.
Eppure, per me, affatto continua e sempre continuerà a voler dire “del tutto”, e defatigante voleva dire “rilassante” anche prima.
Quanti Pater Ave Gloria?
Affatto. Pavento penitenza defatigante, pultroppo.