Per chi, come me, è nato abbastanza all’inizio dei Settanta, l’interazione con i Playmobil è stata naturale e inevitabile. Perché anche loro sono di inizio Settanta, 1974 per essere precisissimi, e figli della crisi petrolifera: le dimensioni ridotte si spiegano per quello, meno plastica, segue intuizione felice nonché tedesca.
Alla Fiera del giocattolo di Norimberga nel 1974, la Playmobil ebbe un successo pazzesco, perché era riuscita a coniugare un giocattolo di piccola taglia rispetto a quelli in voga al tempo – tipo registratori di cassa simil-supermercato o hula hoop di plastica bella piena – e di materiale, come dire?, di qualità inferiore. Era, ora non so, plastica loffia, diciamolo.
Perdio come bruciavano bene, però. La mano a ‘C’ era della dimensione esatta precisa perfetta di un petardo, la circonferenza era quella al nanomillimetro, andava da sé che chiamava lo scoppio. Poi, a faccia e corpo annerito, seguiva uno scontro che, aiutato con un po’ di alcool, degenerava in incendio mortale con un fumello nero che stordiva.
Sia chiaro, il tutto avveniva raramente, perché non è che se ne avessero molti: tre, cinque al massimo, se andava benissimo magari un camion dei pompieri o giù di lì. Non è che si potesse largheggiare nella distruzione, anzi. Questo però favoriva l’evento catastrofico, che andava celebrato: magari ci finivano dentro anche un paio di Lego, notoriamente nemici dei giganti Playmobil.
La differenziazione dei modelli era molto più scarsa di oggi ma c’era: pompieri, polizia, pirati con galeone (forse un po’ più tardi), infermiere (sì, sessista, coerente con i tempi), forse addirittura Robin Hood, insomma cose così. Il presidente operaio, il presidente sportivo e il presidente ladro e puttaniere sono arrivati vent’anni dopo: la politica ha seguito i giochi, per una volta. Oggi, invece, la differenziazione dei modelli di Playmobil pare abbia raggiunto livelli inarrivabili e solo in Germania si può apprezzare appieno: due mesi fa ad Amburgo sono incappato in questo. Ci vuole un attimo ma arriva.
Esatto, chiamatela come volete, santa o fatina, spero non sia sfuggita la lucina sopra il sacro contenitore che sta ad avvisare il pieno e il vuoto, per quella rimbambita della sanfatina. Non so se il topo sia in preparazione o esista, chissà.
Io, per nascita, sono in questo devoto a Santa Apollonia, la martire cristiana sdentata a forza che svolge la funzione della fatina dei denti, con le medesime modalità: notte, cuscino, dente, soldo, cose così. Quando papa Pio VI decise di porre fine al mercimonio delle reliquie dei santi in forma fasulla, ordinò che tutti i resti veri e presunti dei martiri, beati e santi fossero portati a Roma, per essere vagliati. I denti di Santa Apollonia, venerati in diocesi molto distanti tra di loro, riempirono uno scrigno di circa tre chili di peso. La martire-squalo, Sant’Apollorca. Lo scrignetto fu buttato nel Tevere e amen, buonanotte alle tripla dentatura della Santa. Ma il culto resiste, anche se vince la versione pagana della Playmobil, al momento.