the
b. site
of the moon
sbrodolata finto-casuale di
b.cose.
A Stalingrado non passano e, nel suo piccolo,
neanche nel b.site.
In ogni caso, rimane sempre il piano B.
Cose che non bisognerebbe guardare.
Ci sono cose che, pur avendone la possibilità, non
bisognerebbe mai guardare e luoghi fisici e non,
stessa cosa, in cui non bisognerebbe andare.
Nonostante la curiosità eventuale, non bisognerebbe
mai leggere il diario
di qualcun altro, non bisognerebbe mai leggere la
posta altrui,
elettronica e non, non bisognerebbe mai guardare nei
preferiti di altri (a
meno che non siano
pubblici) o nei files
temporanei, non bisognerebbe mai leggere gli
sms sui telefonini
altrui, non bisognerebbe mai scorrere le fotografie
nelle macchine digitali
altrui, in senso più ampio non bisognerebbe mai
sbirciare nei computer
e nelle agende altrui.
Come non bisognerebbe guardare nelle
camere da letto o nelle
borse altrui, come
educazione insegna.
A meno che, ovviamente, non siano dei perfetti
sconosciuti, il che porrebbe
un problema diverso.
Nel caso di conoscenti/persone amate/care etc., il
fatto di trattenere la propria curiosità non
dovrebbe essere una questione di educazione o
rispetto, o non solo almeno, bensì perché - in ogni
caso - non ne verrebbe fuori assolutamente nulla di
buono, garantito. La delusione, lo sconcerto, la
scoperta imbarazzante, la rissa, il divorzio,
l'assassinio a colpi di incudine sono dietro
l'angolo che aspettano.
Non a caso, esiste un patto
cautelativo della memoria tra me e il mio amico
mr. G. per il quale
patto, in caso di dipartita di uno dei due, l'altro
deve trascurare il dolore, i fiori, la
saponificazione, i parenti affranti, piombare in
casa del defunto e distruggere nonché ridurre in
polvere tutto il computer, lasciandone solo pezzi
infinitesimali. Tutto ciò non perché nei nostri pc
ci sia chissà che, cose normali, ma proprio perché
certe cose private sono e
private dovrebbero restare.
Un
esempio interessante, giusto per citarne uno, di
quanto vado dicendo:
O&O Software è una ditta che si occupa di
programmini per il recupero di dati informatici
cancellati da supporti magnetici e, pro domo sua,
si è comprata un po' di dischi fissi e schede di
memoria usate su ebay, tirandone fuori un po' di
dati che si presumevano cancellati (l'operazione è
piuttosto banale, di solito basta un
software qualunque).
E ha pubblicato il
risultato di questa operazione.
Io, per puro spirito di servizio e per esigenze di
completezza di questo post, non certo per
vuaierismo, sia mai!, riporto qui qualche
fotografia recuperata dai sopradetti dischi fissi e
schede di memoria dai cattivoni di
O&O, è uno studio (tanto non li conosco):
quattro tizi molto impegnati,
quattro tizi che è meglio se non si impegnano,
uno splendido specchio da camera,
deepamerica,
un tizio medio che si esprime liberamente,
accanimento sugli indifesi,
foto delle vacanze (il problema non sono i due
tizi, ma lei),
piccoli giochi estivi.
diciassette
I monumenti (ai) caduti. I
caduti di Palazzolo.
Ovvero, quando una mano poco felice manda tutto a
ramengo.
E' una questione di prospettiva, come spesso accade.
Una prosperosa Morte, o Patria, o Madre, o entità
eterea che dir si voglia, solleva pietosa un fante
caduto in combattimento verso la Gloria, il Riposo,
la Memoria.
Non fosse che, circumnavigando il monumento, da un
certo punto di vista pare che si tratti di gioioso
salto della cavallina, o dello steccato dopo una
copiosa bevuta di olio di semi che mantiene in
forma, il che rende un pochino meno onore ai caduti
al fronte.
Mi scappa un po' da ridere, la retorica
patria
va a farsi un po' friggere (nell'olio di semi), i
caduti restano caduti e la Gloria non si vede
passare nemmeno di sguincio.
Mi spiace che la mia foto, troppo scura, non renda
piena giustizia dell'atto atletico, notevole,
immortalato aere perennius (ehm...).
Povero fante, a lui e ai caduti tutta la mia
comprensione per questo affronto postumo; vice
versa, nessuna compassione per il colpevole,
l'incauto nonché infelice scultore.
quindici
A Giuseppe Pinelli,
ucciso in Questura.
quattordici
Le allegre nonché inutili
guide di trivigante.it: il salottino del re. La
Sala reale della Stazione Centrale di Milano.
In un inverosimile afflato di pubblica
disponibilità, le Ferrovie
dello Stato (o dovrei dire, meglio
Grandi Stazioni), nell'aprile scorso,
hanno aperto al pubblico, per la bellezza di ore
quarantotto, la Sala reale
della Stazione Centrale di Milano. Ma che
bello, ma che generosità, finora avevano avuto il
cattivo gusto di tenerla chiusa e di affittarla
solamente a stilisti dementi per festicciole
privé, facendo di un bene pubblico un bene
privato a uso di danarosi pistolini.
Ovviamente, ora è di nuovo chiusa, perché essendo
appena stata restaurata, mica la si vorrà rovinare
con le esalazioni bovine del volgar pubblico, no?
Attendo futura apertura, ché son ottimista.
Comunque, in quella breve parentesi miracolosa,
riesco a intrufolarmici con la mia bella e a fare un
po' di fotografie, che riporto qui a uso e consumo
dei miei amatissimi compagni di merende.
La Sala reale della Stazione
Centrale di Milano aveva in realtà la
funzione di sala d'attesa del re e della real
famigliola, presumibilmente mentre aspettavano il
real locale delle 7.41 per Novara. Dotata di
un'entrata esterna autonoma, non voglia iddio che ci
si debba mescolare alla volgar plebaglia sui binari,
con tanto di ascensore dorato di stucchi, è composta
in sostanza di un grande salone con due ali
laterali, un lucernario e una gran finestrona che dà
sull'esterno, balcone compreso per eventuale
discorso alla popolazione.
I marmi si sprecano, con fregi littorii e storie di
Roma, nonché dei Savoia, le colonne sono imponenti,
i pavimenti sono di parquet intarsiato in
ogni modo e colore, ove non siano marmi, le poltrone
sono imbottite con tessuti azzurri in stile casa
Savoia, come le tende, i lampadari e i tavoli e
tutta l'oggettistica è in stile con la Stazione,
nelle nicchie laterali vi erano statue mussoliniane
e fascistoidi in genere.
Le statue furono ovviamente abbattute
e qualcuno tirò un (opportuno?) colpo di fucile al
mosaico che rappresenta sciaboletta che arringa le
truppe fascistissime, all'esterno della sala.
Preso in piena faccia, ancor si vede dal binario.
Due sono le cose molto curiose della Sala.
La prima è il bagno,
che ha - esattamente in corrispondenza della real
tazza da cesso - una scaletta che raggiunge una
botola nel soffitto, dalla quale si può uscire sul
tetto.
Nonostante sciaboletta fosse veramente di statura e
fattezze minime, la botola è davvero troppo stretta,
anche per un botolo di re. Gli illuminati studiosi
di botologia dicono che servisse a comunicare con
l'esterno senza dare nell'occhio degli eventuali
ospiti ("abbiate pazienza, mi scappa ancora da
pisciare, oggi proprio non la tengo..."),
scambiandosi eventualmente documenti ("ehi,
guardate cos'ho trovato mentre pisciavo...").
Non male.
La seconda cosa interessante, la più interessante
secondo me dell'intera sala, è una parte di una
delle due ali laterali. Infatti, non ho idea per
quale caso della storia, si è conservata esattamente
com'era, senza che a nessuno sia venuto in mente di
devastarla. Mistero. Comunque,
questa piccola zona era stata predisposta dal
Fiero Alleato Galeazzo
Musolesi, sempre prono al padrone tedesco, in
vista di una visita di Hitler
che non avvenne mai. Infatti, andò a Ostiense, a
Roma. Maledizione.
Per accogliere degnamente il führer, fu
rifatto il parquet di modo che fosse gradito
al fine imbianchino.
Eccone due fotografie, perché la cosa è bizzarra.
Prima di tutto, incredibile che il pavimento sia
sopravvissuto al periodo successivo al
25 aprile 1945
(qualcuno parla di un tappeto opportunamente
posizionato, leggenda), e poi che il
fiero fassista Musolesi,
o come chiamar lo si voglia, fosse giunto a un così
avanzato grado di monaggine. Mi immagino la scena: "venga,
dottor Hitler, venga a vedere (striscia),
guardi qua che roba che abbiam fatto, eh? C'è la
svastica, visto che roba? Siam proprio amicissimi,
noi".
La sala, che buffa cosa, non fu mai
utilizzata dal re gnomo. E nemmeno da Hitler. O da
alcuno.
Restiamo piuttosto sorpresi dal pavimento in sé, in
fin dei conti non ne son rimaste molte di cose di
questo genere (euf.), ma la cosa più
sorprendente deve ancora accadere:
Ferrovie dello Stato,
svengo dalla commozione, all'uscita ci regala un
libretto illustrativo sui restauri e un dvd con
Alberto Angela che
illustra i segreti della
Stazione Centrale. Regalati, capito?
Devo appoggiarmi a un lampione originale di
Stacchini, non sto in
piedi. Ferrovie dello Stato
che regala qualcosa a me, son davvero
stranito. Per un attimo ci è parso quasi di vivere
in un paese europeo, che so, in un paese normale.
Un attimo breve ma incredibilmente intenso.
dodici
Saverio Saltarelli. Il dodici dicembre 1970,
Saverio Saltarelli,
studente di 23 anni, venne ucciso negli scontri in
via Larga, a Milano. C'erano quattro manifestazioni,
quel giorno: una dell'ANPI
in piazza Duomo, una del
Movimento studentesco vicino alla Statale,
una degli anarchici
ancora in piazza Duomo, una dell'MSI
in piazza San Carlo. Avvennero numerosi incidenti
verso le 17, in particolare in via Larga, dove
confluirono gli anarchici, caricati dalla celere, i
fascisti, che partirono da piazza San Babila con
l'intento di assaltare l'Università, che era
presidiata a sua volta dal Movimento studentesco.
Inevitabile lo scontro.
In via Sant'Antonio un reparto, composto da un
centinaio di militi dell'Arma agli ordini del
capitano Antonio Chirivì,
aprì il fuoco contro gli studenti. Rivoltellate e
candelotti lacrimogeni sparati ad altezza d'uomo.
Risultato: un giornalista e uno studente feriti dai
proiettili, Saverio Saltarelli
ucciso.
Le prime versioni ufficiali sulla
morte di Saltarelli parlarono di malore e poi
di collasso cardiocircolatorio. Dopo
l'autopsia, di fronte all’evidenza dei fatti, si
ammise che il cuore di Saltarelli fu spaccato da un
lacrimogeno sparato ad altezza uomo. Nonostante
l'ostruzione delle forze dell'ordine, si arrivò a
una sentenza sei anni dopo: il capitano di PS
Alberto Antonetto,
comandante del reparto da cui partì il candelotto,
fu condannato per omicidio colposo a
9 mesi con la
concessione delle attenuanti generiche, la
sospensione
condizionale e la non menzione.
Che schifo.
Perché Saltarelli era
in strada a manifestare il 12
dicembre 1970? Ovviamente per questo:
E sono trentotto anni con oggi,
trentasette per Saltarelli. Ha senso?
undici
I monumenti (ai) caduti. I
caduti del mare di Idro.
Come l'altroieri, vorrei proseguire la mia piccola
catalogazione dei monumenti ai
caduti che hanno sorpassato la soglia di
guardia in quanto a mostruosità nell'ardita
ideazione e nella colpevole realizzazione.
Ovvero, colpire la retorica
patria
espletata nei monumenti di piazza o di aiuola, senza
mancare di rispetto per i caduti.
Oggi Idro, ridente
località sull'omonimo lago, che tanti marinai ha
dato alla guerra. Di mare. Tanto è il rispetto
doveroso per loro, quanto è il dispregio per il
monumento ridicolo: àncora su stella con cippetto
candelato, il tutto sormontato da pennoncino navale,
formato aiuoletta cintata esagonale con pietoso
vasetto floreale (posteriore?) sul fronte.
Le lapidi a fianco, in stereo come altoparlanti.
Poveri marinai, sono pure morti, ci mancava la
stella ancorata. Chissà cosa ne penserebbero.
Ovviamente, non sarebbe in questa rubrica, questo
monumento non ispira alcun afflato sentimentale o
poetico, il che rimanda direttamente non alla sfera
che attiene morte, sofferenza, ricordo e memoria, ma
a un certo tipo di retorica della guerra che io
trovo piuttosto imbarazzante (euf.). O grottesca,
ridicola, patetica, insomma questo genere di
sensazioni. Se trovate ameni monumenti:
posta [at] trivigante.it.
Grazie.
Dimenticavo: vale solo la visione di persona.
nove
I monumenti (ai) caduti. I
caduti del mare di Predore.
Non intendo mancare di rispetto ad alcun caduto di
qualunque guerra per qualunque patria, ci
mancherebbe (anche se comunque qualcosa da dire ce
l'avrei ma è un altro discorso), dicendo che
esistono bizzeffe, miriadi, moltitudini di
monumenti ai caduti che
mi fanno scompisciare dalle
risate.
Ovviamente non sono i caduti che mi fanno ridere,
quanto la retorica patria
espletata nei monumenti di piazza o di aiuola,
spesso portata all'inverosimile, al grottesco e al
ridicolo. Per esempio, esiste una tipologia di
monumento agghiacciante dedicata ai bersaglieri, il
cui stampo deve essere stato utilizzato un sacco di
volte, nel quale campeggia una testona monca di
bersagliere, con bocca aperta come dicesse "oooh"
stupefatto, che nulla ha di fiero e nobile.
Anche perché gli riempiono la bocca di cicche e
moccini.
Comunque, mi piacerebbe fare una raccolta di
fotografie dei monumenti ai caduti più orrendi e
ridicoli che costellano i paesini più piccoli e
improbabili. Infatti, spesso la mostruosità del
monumento è inversamente proporzionale alla
consistenza demografica del paese che lo ospita. Per
esempio, a Predore,
paesello sulla riva bergamasca del
lago di Iseo, c'è un
monumento ai caduti del mare di imbarazzante
fattura, dato che si tratta della mini-prua della
nave Amalfi incastonata in un obelisco-faro-albero
maestro, con tanto di ancora e finto mare in
piscinetta. Bellissimo, eccolo qui a destra.
Spero non l'abbiano inaugurato con la bottiglia di
sciampàgn e la contessa Mazzanti Viendalmare.
Essendo un paesino di lago, non dubito che vi
dovessero essere molti marinai prestati alla guerra
di mare, va bene, ma questo non autorizza a mandare
tutto in vacca, penso. Poveri marinai, sono pure
morti, ci mancava lo spicchio di nave turrita.
Chissà cosa ne penserebbero.
So cosa ne penso io, però: mi viene da ridere. Se
incappate in monumenti ai caduti di questo genere e
vi viene da ridere, fotografateli, per favore, e
mandatemeli (posta [at] trivigante.it).
Ne farò buon uso.
sette
Il più pulito ha
la rogna.
Non mi è ancora passata l'incazzatura per la
richiesta di risarcimento dei
Savoia - e non solo a me, per fortuna -
quando mi torna il buonumore leggendo, oggi, che
Ilan Brauner, medico
israeliano residente a Casale (TV), mai sentito
prima, ha chiesto all'Unione
delle comunità ebraiche di querelare
Vittorio Emanuele e il
figlio Emanuele Filiberto
per danni morali, in qualità di eredi di
Vittorio Emanuele III,
sciaboletta, che nel 1938 promulgò e firmò le leggi
razziali contro gli ebrei, artefice
Mussolini. Cito da
qui: "Il fulcro della denuncia saranno le
leggi razziali contro gli ebrei del 1938 - dice
Brauner - I Savoia sono eredi di un reale che ha
siglato una legge crudele e assurda, che ha tolto
libertà e dignità al popolo ebraico. I Savoia
vogliono essere risarciti dallo Stato italiano per
il loro esilio, chiedono i danni morali? Bene, noi
vogliamo essere risarciti dai Savoia perché la casa
reale ha cancellato la nostra libertà, i più
elementari diritti civili provocando un enorme danno
morale ed economico".
Bene, mi dico, sono d'accordo, si ristabilisca un
po' di ordine nelle cose e si molli qualche
calcinculo ai dementi savoiardi sfrontati. Momento.
Ho
imparato che, prima di dire 'bravo' a
qualcuno, è meglio documentarsi un po', esperienza
personale acquisita facendo anche il
bsite, per cui, prima
di congratularmi con Brauner,
mi sono fatto un giro in rete.
Vualà, mi sono imbattuto nell'opuscolo
DOVE?, distribuito a
Treviso, Venezia, Belluno, guida gratuita per il
tempo libero.
Alessandro Doni
segnala un articolo proprio di
Ilan Brauner il quale,
nella rubrica I consigli
del medico, prende posizioni
proibizioniste sulle droghe, citando come esempio
Amsterdam e le vie a
luci rosse. Il passaggio più idiota? Eccolo: "Le
trasformazioni del tempo hanno fatto sì che la
strada degli specchi (vetrine con signorine a
disposizione) ha dovuto concorrere contro le
chat-line, quindi l'offerta si è fatta più
agguerrita anche se il
materiale umano appare più scadente (invasione
dell'est Europa e dell'Africa)".
Materiale umano? Più scadente?
Tragico ma non strano, visto che
Brauner, pur non
potendo votare,
dichiara: "Conoscendo il dott. Gentilini dal
1975, quando ho perfezionato il mutuo della casa con
Cassamarca, avrei voluto (non sempre) dargli la mia
preferenza in quanto lo ritenevo più efficace del
sig. Marton o del avv. Vittorino Pavan". Sì, il
Gentilini sindaco
leghista di Treviso, un
paio di sue citazioni: "Siamo in guerra, i
gommoni degli immigrati devono essere affondati a
colpi di bazooka. Occorre puntare ad altezza uomo";
"disposizioni alla comandante dei vigili urbani
affinché faccia pulizia etnica dei culattoni... Qui
a Treviso non c'è nessuna possibilità per culattoni
e simili"; "Extracomunitari? Bisognerebbe
vestirli da leprotti per fare pim pim pim col fucile".
Il bello è che Brauner
è un extracomunitario.
Brauner è l'ennesima
riprova, minuscola, di uno schifoso e italico
costume che ha appreso in fretta: più sono stronzi,
più sono sporchi, più sono rognosi e più si ergono a
baluardi moralizzatori, tenendo lezioni dallo
scranno su cosa sia giusto e cosa no. E fanno le
vittime. Ma porcozzio, è possibile che in questo
cazzo di paese si debbano sempre cercare con il
lanternino le persone degne, rispettose, ricche di
rigore morale e di coerenza, integre, che si
assumono le responsabilità di ciò che dicono e
fanno?
Ci sono, per fortuna, ed è grazie a loro che le cose
stanno ancora insieme, ma stanno come le foglie
sugli alberi d'autunno. Andiamo avanti così, allora:
le donne dell'Est e
le donne africane
facciano causa a Brauner,
il quale faccia causa ai
Savoia, i quali facciano causa allo
Stato. Chi la prende in
saccoccia?
Fanculo, Brauner, fammi
causa. In tribunale ti salto al collo, promesso.
sei
Il mio sport
preferito: extreme dwarfs fighting.
Ecco come funziona: due nani deformi si affrontano
in un ring ricoperto di melma, sputandosi addosso
bagoline di pelo e sterco che producono a piè
sospinto, graffiandosi la faccia con afflati
incomprensibili, sotto il vigile occhio di un
arbitro scelto tra i servizievoli obrobri di natura.
Ovviamente, nella migliore tradizione di
questo sport, questo genere di
spettacoli hanno lo scopo del sollazzo
del mona sovrano, che ride come un
bambino seduto sul trono con i piedi
penzoloni, e i due contendenti si danno
addosso per stabilire quale dei due sia
il prediletto del re bigolo, senza che nessuno cada
mai sotto i colpi dell'altro. L'aspetto migliore di
questo sport, come le gare di mangiatori
di wurstel per esempio, è che ogni
attacco è portato in funzione del
pubblico, il quale - mentre tira caccole
dagli spalti - si sente rincuorato delle
proprie disgrazie e, di colpo, apprezza
di più la propria vita, i propri amici,
il proprio lavoro, la propria
intelligenza, sentendosi di spessore
titanico a confronto delle strazianti
creature che si contendono la partita.
Io stesso amo
assistere agli incontri, la mia vita si riempie di
significato e di bellezza, se paragonata alla
crudele sorte dei mostri. E poi mi fanno ridere gli
effetti dello scontro, è come se Cucciolo sfidasse a mortal tenzone Mammolo, non aumenta nemmeno
l'entropia, il che è tutto dire. Però ingrassa
Mastella.
quattro
Ravenna, 1993.
Why does it hurt when I pee?
Il 4 dicembre 1993, ricordo bene, stavo seduto in un
bar di Ravenna e facevo colazione con i miei tre
amici balenghi, il giovane
Werther, il piccolo
Lordo e Naso,
forse avevamo dormito in macchina, ed eravamo al
sicuro, per lo meno a cinquecento chilometri
dall'Università. Nessun rischio di imparare
qualcosa.
E'
in quel bar di Ravenna che scoprimmo che
Frank Zappa era morto.
Naturalmente, fino a poco prima noi facevamo i
furbini, "non è più lui", "non
si può, ora
suona con Cuccurullo" (che sarebbe l'ex
chitarrista dei Duran Duran, figuriamoci), ovvio,
eravamo quattro studenti di lettere passatisti e
supponenti. Lui un genio, noi a Ravenna. Volpe, uva.
Comunque, ci rimanemmo male, perché noi volevamo
bene a Zappa.
Conoscevamo addirittura uno, molto ricco, che si
diceva possedesse l'intera discografia, che si
mormorava fosse di migliaia e migliaia di dischi,
forse milioni. E noi glieli avremmo rubati
volentieri, perché i dischi di Zappa bisogna
meritarseli, oltre che capirli.
E pensavamo che noi sì e lui no.
Ci rimanemmo male e ne parlammo a lungo, in fin dei
conti era un po' nostro amico, visto che era
eclettico, privo di metodo, burlone, aggressivo e al
di fuori del sistema, cose che noi apprezzavamo
parecchio. Un po' come Bianciardi, Ciampi, i Joy
Division, Céline e così via. Tempi belli, quelli.
Per celebrarne oggi la dipartita, elenco tre brani a
dir poco imbarazzanti che scrisse per ricordare le
sue origini italiane: Tengo
'na minchia tanta (da
Uncle Meat),
Questi cazzi di piccione
(da The Yellow Shark)
e Dio fa (da
Civilization Phaze III).
E, tra le cose che gli furono dedicate, mi piace
ricordare i due asteroidi
(3834 Zappafrank e 16745 Zappa), una
medusa (Phialella
zappai), un pesce (Zappa
confluentus), un mollusco
estinto (Amauratoma zappa) e un
ragno (Pachygnatha
zappa). Viva Zappa, dunque, ancora.
E viva, anche, i nostri tempi che furono, che furono
belli assai, perché c'era Zappa e un sacco di altre
cose.
due
Le allegre nonché inutili guide di trivigante.it:
finanza sociale
nel primo secolo dopo cristo. Velleia.
O Veleia, sta nascosta sull'appennino
piacentino-ligure e bisogna sapere cosa cercare per
trovarla. Tra le coste sdrucciolevoli delle colline
che hanno la brutta abitudine di scendere a valle,
sta Velleia, città
romana che fu nobile, Augusta,
municipio romano dal 49
a.c. e città libera dal 42.
Bisogna
risalire la val d'Arda
da Fiorenzuola,
spostarsi verso sud-ovest da
Lugagnano, miracolosamente le indicazioni ci
sono e indicano davvero.
Curve, controcurve, crinali
bellissimi, casali abbandonati, doline e un
cementificio da vergogna, alla vista di numerosi e
robusti cipressi - sempre attenzione ai cipressi, se
siete in cerca di rovine romane - lì è
Velleia, ci finite
dentro.
La fortuna della città fu la posizione, al crocevia
delle strade tra liguria e pianura padana, e le
sorgenti di acqua salina. Oltre al paesaggio, le
viti, la terra fertile.
I Romani erano molto
saggi, riguardo certe cose.
A ulteriore dimostrazione di questo, dice l'ultimo
censimento di Vespasiano (72 d.c.) che a
Velleia
vivevano sei persone di centodieci anni, quattro di
centoventi, in aggiunta al leggendario Marcus Mutius
Marci filius Galerius Felix che ne avrebbe avuti
centoquaranta. Merito delle terme alimentate da
acque cloruro-sodiche? Può essere.
Velleia conobbe periodi
floridi, il foro e la basilica sono degni di città
molto più rinomate, l'estensione è notevole e il
colpo d'occhio di gran soddisfazione.
La città decadde verso il terzo secolo d.c. e
definitivamente nel quinto, a causa di uno
smottamento delle colline superiori che, non a caso,
si chiamano Morìa e
Rovinasso. Potenza dei
toponimi.
Nel 1747, l'arciprete
della pieve di Macinesso,
sopra Velleia, che non si era mai chiesto da dove
venissero le pietre con cui ampliava la sua pieve,
scoprì in un prato la famosa
tabula alimentaria traiana.
La tabula è la
la più grande tavola scritta in bronzo di tutta
l'antichità romana, tre metri per uno e mezzo. Il
furbastro la recuperò, la spezzò in molti frammenti
e cominciò a venderla a collezionisti e fonditori
della zona, per ricavarne fondi per le pecorelle
smarrite della sua parrocchietta.
I canonici piacentini Giovanni
Roncovieri e Antonio
Costa ne videro un pezzo, intuirono
l'importanza del ritrovamento, fermarono l'arciprete
e lo costrinsero a recuperare tutti i pezzi della
tabula, che fu
ricostruita e donata a Filippo
di Borbone, duca di Parma, il quale diede
inizio, nel 1760 agli scavi archeologici.
Il fatto fu eccezionale, nello stesso anno
iniziavano gli scavi di Pompei,
nasceva una nuova scienza.
La tabula alimentaria
traiana è, in sostanza, la registrazione
del catasto fondiario di
Velleia, poiché riporta i nomi dei
proprietari terrieri, l'ubicazione e la dimensione
dei fondi e il loro valore in sesterzi.
Traiano e poi
Nerva, utilizzando il
proprio patrimonio personale (fiscus),
concedevano capitali in prestito agli agricoltori,
dietro garanzia ipotecaria e a un basso tasso di
interesse, e ne devolvevano le rendite
all'assistenza dei fanciulli poveri della città,
incoraggiando così l'incremento sia agricolo che
demografico.
I capitali restavano lì e la finanza sociale era
molto più evoluta che ora.
Esaurita
la botta-de-curtura, la zona offre allettanti prerogative,
tra le quali vincono su tutto la torta fritta, salumi di ogni foggia,
sostanza
e lavorazione, castelli castellini castelletti in
ogni dove, un certo atteggiamento serafico e
ruspante che, senza dubbio, rende alta la qualità
della vita.
Io, oltre a consigliare caldamente, ci torno
ogni volta che posso, anche se il colesterolo mi
ucciderà.
(grazie ad a.a.j.l.)
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